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TESTO Una porta sempre aperta

don Alberto Brignoli  

IV Domenica di Pasqua (Anno A) (30/04/2023)

Vangelo: Gv 10,1-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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1«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.

7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

In questa Domenica del Buon Pastore, nella quale ogni anno si legge una parte del capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, Gesù si definisce innanzitutto come “la porta delle pecore”. Questo lungo discorso di Gesù prende il via dopo la guarigione del cieco nato in giorno di sabato (narrato al capitolo 9): per i capi dei Giudei, Gesù aveva violato la Legge, e quindi era come se il miracolo non fosse mai avvenuto. Non solo: non sapendo come giustificare la loro assurda posizione (il miracolo avvenuto era fin troppo evidente) avevano cacciato fuori dal tempio e dalla sinagoga, di fatto scomunicandolo, il cieco guarito.

Gesù parte proprio da questo atteggiamento del “cacciare fuori” tipico dei capi del popolo per annunciare se stesso come “la porta delle pecore”, che apre il recinto, che “spinge fuori tutte le sue pecore” dall'ovile e poi, come vero pastore, cammina davanti a loro e le guida. L'evangelista Giovanni usa proprio lo stesso verbo per indicare sia i capi del popolo che “cacciano fuori” il cieco nato dalla sinagoga, sia Gesù che “spinge fuori” le pecore dall'ovile: questo per dire che ciò che i capi del popolo avevano compiuto come gesto di esclusione dalla comunità, Gesù lo trasforma in un gesto di liberazione, con il quale fa uscire il nuovo popolo di Dio, suo gregge, dalle ristrettezze di una legge fatta di divieti e di obbligazioni e priva di un autentico spirito di appartenenza a Dio.

Ma ci sono particolari ancora più interessanti. Il termine usato da Giovanni per indicare il “recinto” delle pecore da cui Gesù “spinge fuori” il suo popolo, non è un termine usato comunemente nella Bibbia per indicare una stalla. È un termine che si traduce con “atrio”: l'atrio del Tempio (dal quale tra l'altro Gesù sta parlando) ma anche l'atrio della casa del Sommo Sacerdote dal quale lui uscirà dopo la condanna del Sinedrio per portare a termine l'opera della redenzione. Una volta aperta la porta di quest'atrio, egli chiama le sue pecore e le “conduce fuori”: e anche qui, Giovanni usa lo stesso termine con cui nell'Esodo si indica la fine della schiavitù dell'Egitto e l'uscita verso la Terra Promessa.

La missione di Gesù nella storia è principalmente quella di un liberatore, venuto a “far uscire” il suo popolo, il suo gregge, da una situazione di schiavitù, che non è solamente quella del peccato nella quale ognuno è immerso, ma quella di una serie di strutture, istituzioni, leggi e comportamenti che invece di aiutare - come dovrebbero - a crescere nella conoscenza e nell'amore di un Dio che dà la vita, per via della perversa appropriazione del potere da parte di coloro che si rivelano false guide e falsi pastori (“tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti, che vengono per rubare, uccidere e distruggere”, dice Gesù in questo brano), portano il popolo ad allontanarsi dal Dio della Vita e a cadere nel baratro dell'oppressione, dello sfruttamento, della sottomissione alla Legge, cose totalmente contrarie allo spirito del Vangelo annunciato da Gesù. Per questo, Gesù è il “Buon Pastore”: perché egli non è (come alcuni capi del popolo) “un ladro che viene per rubare, uccidere e distruggere”. Egli è venuto perché chi entra attraverso di lui, porta delle pecore, sia salvato: “Entrerà, uscirà e troverà pascolo”. Egli è venuto “perché tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza”.

In questa domenica, la Chiesa - ispirandosi proprio a Gesù Buon Pastore - celebra la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, giunta oggi alla sua sessantesima edizione. Pregare per le vocazioni alla vita sacerdotale oggi ci appare sempre più come una cosa necessaria e inutile al tempo stesso, considerando da una parte la necessità sempre crescente di sacerdoti, che rischiano di diventare merce rara nell'ambito della vita della Chesa (la nostra “gloriosa” Diocesi di Bergamo, “Vandea” del Cattolicesimo italiano, è passata, in dieci anni, dagli 830 sacerdoti del 2012 agli attuali 670...), e dall'altra la pressoché totale indifferenza da parte di ragazzi e giovani di fronte a queste preghiere, elevate dalle Comunità per trovare in loro una risposta che non c'è più (e qui, è meglio che non vi snoccioli i dati relativi al nostro Seminario, perché entreremmo in uno stato di depressione spirituale fortemente insalubre per la nostra fede...).

Ma se è vero che il Maestro ci ha chiesto di non smettere di pregare il Padrone della Messe, allora forse continuare a farlo non solo non ci costa nulla, ma può e deve servire a fare in modo che chi pastore, all'interno della Chiesa, lo è già, perseveri senza stancarsi e senza lasciarsi abbattere dalle difficoltà e dai molti insuccessi, e soprattutto possa ogni giorno cercare di divenire sempre più simile a Cristo, modello di ogni pastore. Sarebbe tanta grazia, per tutti...

Che grazia, infatti, se le preghiere elevate a Dio in questa giornata da tutta la terra, ci ottenessero il dono di una Chiesa guidata sempre da pastori che possano essere vere guide, veri liberatori, vere “porte” aperte che permettano alla gente di entrare e uscire dai loro problemi della vita quotidiana verso l'incontro con un Dio che dà la vita e la dà a tutti in abbondanza; e non, come spesso accade, porte chiuse che rinserrano nel proprio ovile le pecore belle, brave e obbedienti che dicano loro sempre “sì” per farli stare sereni e tranquilli!

Che grazia grande, se la Chiesa fosse sempre testimone vivente di questo respiro di libertà e di vita che Cristo ha annunciato e che ha affidato alla comunità dei discepoli, invece di avere - come spesso accade - l'odore di una stanza ammuffita nella quale si ha paura a far girare l'aria aprendo le finestre, perché è più comodo andare avanti a fare come si è sempre fatto!

Che grazia impagabile, quella di poterci avvicinare a uomini di Chiesa che non incutano terrore e timore per l'esercizio indebito della loro autorità, ma che manifestano la loro autorevolezza con atteggiamenti di profonda misericordia, di accompagnamento, di pazienza (e a volte ce ne vuole tanta... anche verso di noi...) di accoglienza, di autentica liberazione!

Questo significa essere “a imitazione di Cristo Buon Pastore”, come giustamente - ma spesso un po' troppo poeticamente - amiamo definirci noi che lo abbiamo seguito su questa strada ma frequentemente, di fronte alle nostre responsabilità di guida e di governo nella Chiesa, questa stessa strada la smarriamo: significa imitare lui, che è venuto non per comandare, ma per fare la cosa che a lui è riuscita meglio, e che anche noi, con tutti i nostri limiti, peccati e difetti, dobbiamo poter rendere visibile in ogni cosa che facciamo, e cioè “che tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza”.

 

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