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don Alberto Brignoli  

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (06/11/2022)

Vangelo: Lc 20,27-38 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 20,27-38

In quel tempo, 27si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Forma breve (Lc 20, 27.34-38):

In quel tempo, disse Gesù ad alcuni8 sadducèi, 27i quali dicono che non c’è risurrezione: 34«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

In questi giorni, il ricordo dei nostri cari defunti in un'unica commemorazione ci ha dato e ci sta dando l'opportunità - in ogni comunità parrocchiale o Diocesana - di ricordarli anche raggruppandoli in categorie: il ricordo dei defunti dell'anno trascorso, il ricordo dei benefattori e dei volontari delle nostre comunità, il ricordo di vescovi, sacerdoti e religiosi defunti, il ricordo dei missionari che hanno operato in varie parti del mondo partendo dalle nostre terre, e così via. E tra le varie commemorazioni - in particolare per noi qui in Italia - riaffiora anche il ricordo di coloro che hanno perso la vita in situazioni di conflitto bellico: quelli che noi chiamiamo “i caduti delle guerre”, che letti come un elenco di nomi inciso su lapidi di marmo vicino ai nostri monumenti, a noi (soprattutto alle giovani generazioni), dopo parecchio tempo (stiamo parlando tra i 75 e i 100 anni fa...) dicono poco. Sono senz'altro un ricordo della nostra storia, ma non avendoli conosciuti personalmente non proviamo più, nei loro confronti, quel senso di struggente nostalgia che sentiamo, invece, ricordando persone che abbiamo conosciuto e amato e che ora non ci sono più.

Eppure, è sufficiente andare indietro di una o due generazioni; è sufficiente chiedere ai nostri genitori e ai nostri nonni, che ti diranno subito quanto in loro il ricordo sia ancora vivo. Per i più anziani, perché qualcuno di quelli morti nell'ultima guerra è un loro zio, o un parente prossimo che han visto partire per il servizio militare e non tornare più: segno che non si trattava della semplice “naia” a cui si era tenuti, ma qualcosa di ben più drammatico. Per quelli un po' più giovani, resta vivo il ricordo dei racconti dei loro genitori, un dramma vissuto sulla propria pelle, nella propria carne, in quanto si sono visti strappare dal calore della famiglia uno o più figli o fratelli, e di loro non sanno più nulla, se non il luogo in cui hanno perso la vita e dove, forse, qualcuno ha reso il sonno della loro morte meno duro dando loro quantomeno una minima sepoltura. Ecco perché ogni anno commemoriamo questi nostri fratelli: perché i loro nomi non sono semplici incisioni su lastre di marmo o di pietra, ma sono un vissuto, tragicamente reale, delle nostre famiglie e dei nostri paesi. Un vissuto che per noi ha detto poco, per tanti anni, anche perché non abbiamo più avuto a che fare con immagini di guerra nel nostro continente, ma che ora ha assunto le fattezze di qualcosa di drammaticamente attuale, con una guerra alle nostre porte, forse strategicamente lontana da noi, ma di cui viviamo le conseguenze nella vita di ogni giorno.

Allora, questo ci può aiutare a capire che quei nostri fratelli, caduti perché chiamati a fare una guerra sicuramente non voluta da loro (stiamo pur certi che nessun capo di governo cadrà mai su un campo di battaglia...), non devono mai essere cancellati dalla nostra memoria, perché la loro morte, così inspiegabile e assurda, per via di altrettanto inspiegabili meccanismi della storia, ha rappresentato per noi, oggi, la possibilità di vivere in un paese tutto sommato sicuro, libero e in pace, sul quale abbiamo il dover morale e la responsabilità di vigilare perché rimanga unito, libero e soprattutto in pace.

Nessuno di noi era presente nel momento in cui essi sono morti sul campo di battaglia, né sappiamo cosa passasse loro per la testa combattendo quella che avranno sperimentato più come una follia che come una necessità: ma possiamo stare certi che nel loro animo non è mai venuta meno una virtù tra le più importanti, umanamente e cristianamente parlando, quella della speranza. La speranza che la guerra finisse presto; la speranza che la loro patria potesse tornare a vivere nella pace; la speranza di poter loro stessi tornare a vivere in pace nei loro paesi di origine, tra le loro terre, con i loro parenti e amici; la speranza, un giorno, di costruire, in una terra liberata il loro proprio futuro, considerato che quasi nessuno di loro superava i 25 anni di età...

La speranza: quella virtù che, per noi credenti, è profondamente legata a una certezza della nostra fede: quella di una vita che va oltre la morte. E in questo, ci conforta sicuramente il tema della liturgia della Parola di oggi, che non a caso viene collocato in questo periodo dell'anno così pieno di commemorazioni legate ai defunti. Tanto la prima lettura come il Vangelo ci mostrano due atteggiamenti e due risposte differenti legate a un'unica domanda: cosa c'è, oltre la morte? E di conseguenza, come vivere le vicende di questa vita nell'ottica di ciò che verrà dopo di essa?

La virtù della speranza diviene la discriminante che ci permette di rispondere in maniera differente. Chi è senza speranza, chi non spera in una vita che continua anche oltre la morte, si fa beffe della morte e della vita stessa, considerando come inutile e anche stupido agire in questa vita cercando di costruire qualcosa di eterno e di futuro: ed è l'atteggiamento di quei sadducei che, per esprimere la loro mancanza di speranza oltre la morte, si presentano a Gesù con una domanda legata a un caso possibile, senz'altro, ma tanto raro quanto assurdo, al punto da suonare in maniera evidente come una presa in giro verso chi, invece, coltiva una speranza in una vita “altra” capace di andare oltre la morte. Chi, invece, dimostra con la sua stessa vita, ma soprattutto con la propria morte, di avere la speranza nel cuore che non termini tutto con l'esistenza terrena, è capace di affrontare anche le prove più dolorose, quelle che creano intorno a sé il buio della morte, perché sa che oltre questo invisibile, oltre la notte, c'è un abisso, certo, ma di luce e vita.

I sette fratelli descritti, con la loro madre, nel secondo libro dei Maccabei - e siamo ben due secoli prima dell'annuncio del Vangelo - per almeno due volte ribadiscono che il loro coraggio di fronte ai tormenti è dovuto alla speranza di una vita che va al di là della morte. Non pensiamo che questo corrisponda a una negazione della voglia di vivere, come dicevano i filosofi del sospetto, i quali sostenevano che il cristianesimo è fatto apposta per addormentare la vita dei suoi fedeli negandone ogni bellezza perché proietta solo verso l'aldilà. Certo, “è tutta colpa del Paradiso”, come diceva il titolo di un film commedia degli anni '80: colpa del Paradiso non se viviamo rifiutando la bellezza delle cose della vita, ma l'esatto contrario, se, cioè, viviamo in pienezza la vita di quaggiù, con le sue meraviglie e i suoi drammi, nella certezza che ciò che è vissuto con pienezza è capace di andare oltre l'universo della morte, perché viaggia sull'astronave più veloce che abbiamo a nostra disposizione, quella della speranza.
E allora, nessun sacrificio sarà mai vano.

 

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