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TESTO In missione, con tutta l'umiltà necessaria

don Alberto Brignoli  

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (23/10/2022)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 9disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Il Vangelo di oggi ci presenta una parabola di Gesù che, bene o male, ci mette d'accordo un po' tutti quanti: non credo sia di difficile interpretazione (anche perché Luca spiega da subito qual era l'intento di Gesù nel narrarla), così come non credo ci possa essere qualcuno che non si trovi in sintonia con quanto Gesù racconta. Un uomo orgoglioso e superbo, per quanto profondamente credente e pio, si reca al tempio a pregare, e lo fa ringraziando Dio per ciò che egli stesso sente di essere, ovvero giusto e santo. Allo stesso tempo, si permette, all'interno della sua preghiera, di giudicare e disprezzare un altro uomo, entrato anch'egli al tempio a pregare, nonostante fosse notoriamente un ladro e un disonesto. La preghiera di quest'ultimo, per nulla ascoltata dal primo perché distante da lui, era solo una richiesta di perdono, scaturita dalla presa di coscienza della propria debolezza e della propria pochezza di fronte a Dio e di fronte agli uomini. La conclusione è quasi scontata: il fariseo che pregava esaltando se stesso e disprezzando l'altro non ottiene quella salvezza che invece entra nel cuore del pubblicano, pentito del proprio male e capace di chiedere perdono a Dio. In buona sostanza, a Dio non importano le tante o poche buone opere che compiamo nella vita, perché egli guarda al nostro cuore e - come abbiamo pregato nel salmo - “è vicino a chi ha il cuore spezzato”, affranto dalla presa di coscienza dei propri limiti e delle proprie incapacità. Dio apprezza la sincerità di un cuore umile e non tiene affatto conto della tracotanza di un cuore superbo, ancor meno quando si permette di giudicare e di sentirsi giusto e superiore agli altri.

Applicare l'insegnamento di questa parabola alla Giornata Missionaria che oggi si celebra in tutte le Chiese del mondo può sembrare alquanto inadeguato: non sembra, infatti, poter offrire spunti di riflessione legati a tematiche missionarie, al tema dell'evangelizzazione, dell'annuncio del Vangelo a ogni cultura o dell'attenzione alle molte e variegate forme di povertà presenti in molte parti del mondo. Eppure, alla luce della mia vita missionaria che - tra un'esperienza e l'altra, tra un incarico e l'altro, tra un viaggio e l'altro, tra una chiesa e un'altra - perdura da ormai 25 anni, ascoltare e rileggere queste parole provoca in me una reazione che spero possa essere per ognuno di noi motivo di riflessione, di preghiera e di impegno concreto, come ci viene chiesto da questa celebrazione annuale.

In questi anni di testimonianza missionaria in diverse parti del mondo e della nostra Chiesa italiana e locale mi è capitato più di una volta non solo di imbattermi, ma di cadere io stesso in situazioni nelle quali - forse senza arrivare alla sprezzante tracotanza del fariseo e senza mai umiliare nessuno - un senso di superiorità e un conseguente giudizio negativo nei confronti degli altri veniva e viene a manifestarsi in forme e modi che a volte non sono così evidenti e sfacciate, ma che ad ogni modo denotano la presunzione di sentirsi “migliori” degli altri; dove per “altri” si intendono generalmente le persone e le situazioni alle quali, come missionario, sei inviato.

Nella stragrande maggioranza delle situazioni, non c'è un'esplicita intenzione di “superiorità” da parte del missionario rispetto alle popolazioni o alle Chiese a cui è inviato: anzi, l'intenzione con cui si va verso l'altro, in particolare il povero e il debole, è sempre quella di aiutare a crescere, a stare meglio, a risollevarsi materialmente e spiritualmente da situazioni di grave indigenza, e va da sé che lo si faccia con tutta la buona fede di questo mondo. Tantomeno, lo si fa con un senso di umiliazione o disprezzo, ci mancherebbe! Ma il rischio di sentirci, in questo, superiori alle persone o alle situazioni a cui siamo inviati è sempre molto forte e perennemente in agguato, spesso senza che ce ne accorgiamo.

Veniamo da paesi e da continenti nei quali la fede cristiana è fortemente radicata da secoli e nei quali la possibilità di avere una solida formazione teologica e spirituale è reale e concreta, per cui ci sentiamo “portatori” di un messaggio di salvezza che altre culture e altri popoli non hanno: per poi accorgerci - ora anche numericamente - che la fede cristiana è molto più radicata e molto più solida in altre Chiese che noi chiamiamo “del Sud del mondo” rispetto alle nostre Chiese di antica tradizione, dove ormai la fede cristiana si sta spegnendo al punto da chiederci quali siano, ora, i territori di missione.

Veniamo da luoghi in cui abbiamo ricevuto una buona istruzione e una buona scolarizzazione, luoghi dove l'analfabetismo è ormai pressoché un ricordo del passato, per cui ci sentiamo più preparati e più acculturati rispetto a popolazioni che ancora faticano ad avere un'educazione scolastica di base, e nelle quali spesso si contano sulle dita di una mano coloro che, in un villaggio, sanno leggere-scrivere-far di conto: per poi renderci conto che la cultura non coincide con la scolarizzazione, che la saggezza non va di pari passo con l'alfabetizzazione, e che lo studio della storia da noi fatto a scuola ha sempre omesso di insegnarci che ci sono culture molto più antiche delle nostre, che ci sono lingue più ricche della nostra, che ci sono civiltà che si sono sviluppate molti millenni prima della nostra e che, se sono miseramente crollate, lo hanno fatto sotto i colpi delle guerre, delle conquiste e delle invasioni causate dalla nostra prepotenza nord-occidentale.

Veniamo, infine, da mondi tecnologicamente, industrialmente ed economicamente molto più forti di quelli a cui, in genere, siamo inviati, e la tentazione di “mettere a posto le cose” costruendo, facendo, edificando secondo il nostro schema mentale quasi “colonizzante” è veramente forte: per poi accorgerci che non è la forza dell'economia e delle strutture quella che salva il mondo, e che esiste una forma di povertà (diversa dalla miseria e dalla disperazione) dalla quale abbiamo moltissimo da imparare. E forse, le molte e continue crisi economiche che in questi ultimi decenni stiamo vivendo anche nel nostro ricco mondo nordoccidentale qualcosa possono davvero insegnarci: si tratta di avere un cuore umile, capace di comprendere che ogni cultura, anche la più piccola, povera e ignorante, ha molto da donarci.

Se oggi si parla di cooperazione missionaria più che di missione, di scambio tra le Chiese più che di invio di missionari, è perché dobbiamo prendere coscienza che l'atteggiamento giusto per annunciare il Vangelo a ogni creatura è quello di mettersi allo stesso livello e a fianco dei fratelli e delle sorelle a cui lo Spirito ci invia: perché, finalmente, dopo tanti secoli, chi è stato umiliato dalla storia e dalla società possa essere esaltato e innalzato dalla potenza del Vangelo.

 

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