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TESTO E tu, cristiano, lo sai chi sei?

don Alberto Brignoli  

XXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (28/08/2022)

Vangelo: Lc 14,1.7-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 14,1.7-14

Avvenne che 1un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.

7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

12Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Tanti anni fa, era in voga l'espressione “Lei non sa chi sono io”, attraverso la quale alcune categorie di persone ribadivano una certa superiorità, che le autorizzava - a detta loro - a rivendicare alcuni diritti rispetto ad altre categorie ritenute “inferiori”. L'arrivo della democrazia con l'abolizione dei titoli nobiliari e un sempre crescente numero di laureati ha contribuito, a poco a poco, al perdersi, qui in Italia, di questa espressione, che era per lo più legata al fatto di avere, davanti al cognome, il titolo di marchese o conte, o più semplicemente l'appellativo “dottor” o “professor” (tanto al maschile come al femminile), cosa, quest'ultima, che oggi può essere attribuita ad almeno un quarto della popolazione del nostro paese. Una volta, poi, alcune donne sposate si gloriavano di usare questa espressione anche solo per saltare la fila dal salumiere, rivendicando di essere “la signora tal dei tali”, usando il cognome del marito, noto medico, avvocato o commendatore del quartiere o del paese. E quanto più il paese era piccolo, tanto più si potevano rivendicare dei diritti; cosa che oggi farebbe sorridere, sia perché in alcuni casi essere la moglie di certi personaggi non è poi un gran vanto, o semplicemente non lo si è più (vista la durata dei matrimoni), sia perché, grazie a Dio, si sta acquisendo una maggior coscienza riguardo all'uguaglianza di diritti e doveri di ogni cittadino di fronte alla società.

Quel che fa specie, tuttavia, è che insieme a una sempre più auspicata presa di coscienza dell'uguaglianza dei soggetti nella società, stiamo assistendo ormai da tempo a una progressiva perdita di coscienza della propria identità, del proprio ruolo, della propria funzione all'interno della società stessa. Una società sempre più “liquida” (ossia priva di quei punti di riferimento e di quei valori “solidi” su cui si costruivano le relazioni); un mondo sempre più appiattito e uniformato dalla globalizzazione; un ambiente sociale e culturale in cui anche solo avere un lavoro e quindi un ruolo nel contesto vitale in cui si è inseriti è divenuta una chimera: sono tutti fattori che hanno contribuito al fenomeno della perdita dell'identità, non tanto da un punto di vista psicologico, quanto da un punto di vista culturale, cosa che poi, ovviamente, si riflette nell'ambito personale, portando a una crisi di identità del soggetto stesso.

Per sintetizzare, potremmo dire che si è passati dal “Lei non sa chi sono io” al “Neppure io so chi sono io”: e questo perché, nel momento in cui ci si è giustamente preoccupati di ribadire l'uguaglianza delle persone, di fronte a una società in continuo e rapidissimo cambiamento non ci si è altrettanto preoccupati di rafforzare l'identità personale, sottolineando anche la necessità di rimarcare le diversità di ognuno, nel contesto dell'uguaglianza. Insomma...oggi non sappiamo più bene chi siamo, cosa siamo, cosa facciamo, quale ruolo abbiamo nella società...: la nostra identità rischia di andare in frantumi.

Perché questa introduzione “sociologica” prima di addentrarci nella Liturgia della Parola di oggi? Beh, innanzitutto perché sono sempre più convinto che un'omelia, oggi, vada fatta con la Bibbia in una mano e un quotidiano nell'altra, altrimenti si rischia di essere totalmente fuori contesto o di raccontare favolette che non dicono più nulla all'uomo contemporaneo. E poi, perché mi pare di notare che questa intenzione di far sapere agli altri “chi sono io” ribadendo la propria superiorità è antica come il mondo, se già ai tempi di Gesù c'erano quelli che passavano davanti agli altri in nome di una presunta fama o di un presunto titolo, e questo soprattutto nei banchetti (questo è il contesto in cui si trova oggi Gesù), dove mettersi ai primi posti a fianco del padrone di casa significava essere serviti per primi e meglio, a scapito di chi, posizionato in fondo al tavolo, doveva accontentarsi delle briciole e degli avanzi dei primi. Forse (ce lo auguriamo per loro!) questi “invitati dei primi posti”, ribadendo la loro superiorità, sapevano bene quale fosse la loro identità, soprattutto rispetto alla massa, se consideriamo che si trattava di un banchetto in casa di capi di farisei (parola che tra l'altro significa “separati”, “distinti” dagli altri). Di certo, non sapevano quale fosse l'identità del discepolo di Gesù, e comunque, anche se l'avessero saputo, non corrispondeva certo alla loro identità o al loro modo di essere.

Qual è, allora, l'identità del discepolo di Gesù? Che cosa contraddistingue il credente in Cristo? Qual è lo specifico della nostra fede cristiana, ciò per cui possiamo dire agli altri “lei non sa che io sono cristiano”?

Forse non è facile delinearlo in poche battute, ma il Vangelo di oggi ci da una mano. L'identità cristiana non ci viene da un titolo, né da un'appartenenza genealogica, né da un'identità culturale; non ci è data neppure da un certificato di battesimo o da un diploma di partecipazione ai sacramenti e alle varie funzioni religiose; e nemmeno è sufficiente identificarsi come cristiani collocandosi una croce o un rosario al collo, possibilmente bene in vista. L'identità del discepolo di Gesù è data da un atteggiamento, da un valore, da un carisma a partire dal quale scaturiscono tutti i gesti che compiamo, tutte le parole che diciamo, tutte le funzioni che svolgiamo all'interno della società: si tratta della carità. La nostra identità di cristiani si esprime - per restare nella similitudine del banchetto - nel lasciare agli altri i posti d'onore, nel lasciare che siano altri (se proprio ci tengono) a sentirsi onorati di fronte agli altri per essere amici dei potenti; si esprime nell'andare alla ricerca non dell'appoggio dei potenti, ma dei bisogni degli ultimi; si esprime nel circondarsi non delle persone dalle quali possiamo ottenere dei favori, ma di quelle che i favori se li aspettano da noi; si esprime nella vicinanza a “poveri, storpi, ciechi e zoppi”, cioè quelle categorie che al tempo di Gesù non erano ammessi neppure al Tempio a pregare con gli altri perché considerati maledetti da Dio, ma la cui compagnia diviene, per il discepolo di Gesù, anticipo di quel banchetto che ci attende, come ricompensa, alla resurrezione dei giusti.

Oggi concluderei con una frase di Papa Francesco, che più di ogni altra parola ci dice bene quanto per noi sia fondamentale ribadire la nostra identità cristiana attraverso la vicinanza ai poveri: “I poveri sono come maestri per noi. Ci insegnano che una persona non vale per quanto possiede, per quanto ha sul conto in banca. Un povero, una persona priva di beni materiali, conserva sempre la sua dignità. I poveri possono insegnarci tanto anche sull'umiltà e sulla fiducia in Dio”.

 

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