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don Alberto Brignoli  

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Domenica di Pasqua - Risurrezione del Signore (Anno C) (17/04/2022)

Vangelo: Gv 20,1-9 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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1Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. 2Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». 3Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, 7e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. 8Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

In questi giorni, tra una confessione e l'altra, tra una celebrazione e l'altra, e tra un allestimento e l'altro, mi sono messo a pensare alla Pasqua. E mi è venuto da pensare al termine “Pasqua”, che ormai è divenuto talmente familiare nel nostro lessico comune da non porci nemmeno più il problema, il senso del suo significato. Tutti sappiamo di che cosa si tratti: e se ci viene chiesto cosa significhi “Pasqua”, nella migliore delle ipotesi rispondiamo “la Resurrezione di Gesù”. Nella migliore delle ipotesi, dicevo: perché non è da escludere che qualcuno, in un contesto che ormai non è più di “societas christiana”, possa pure rispondere che Pasqua significhi uovo, colomba, agriturismo e aria di primavera...

Ad ogni modo, la stragrande maggioranza di noi cristiani sa che la Pasqua non è una festa di origine cristiana, bensì ebraica: e commemora il momento della liberazione del popolo d'Israele dalla schiavitù d'Egitto ai tempi di Mosè (1300 anni circa prima della nascita di Cristo). Proprio nel contesto di una festa di Pasqua celebrata a Gerusalemme intorno all'anno 30 della nostra era, avvenne “tutto ciò che riguarda Gesù il Nazareno”, come dissero allo sconosciuto viandante i discepoli di Gesù sulla strada che da Gerusalemme conduce a Emmaus. Ma il termine “Pasqua” ha un significato etimologico ben preciso, al quale nei secoli se n'è affiancato un secondo, non meno interessante, perché la combinazione tra i due ci apre a una visione della festa di Pasqua ricchissima di significati e di stimoli per la nostra vita di ogni giorno.

Innanzitutto, la Pasqua nel senso ebraico del termine, ovvero quello di “passaggio”. “Pesah”, infatti, in ebraico significa “passaggio”: non solo il passaggio del Mar Rosso per fuggire dal paese d'Egitto, o il passaggio dalla condizione di schiavitù a quella di popolo libero, ma anche il passaggio dell'angelo sterminatore che, nella notte in cui - al termine delle dieci piaghe - passò a colpire i primogeniti degli Egiziani, risparmiò le case degli ebrei, contrassegnate dal sangue dell'agnello sugli stipiti delle porte. Una festa, quindi, di “passaggio”: da un luogo a un altro, da una condizione a un'altra.

C'è poi un altro significato, emerso dopo l'avvento della religione cristiana e dopo l'utilizzo della lingua greca come lingua corrente tra le prime comunità cristiane: “Pasqua” deriverebbe dal verbo greco “paschéin”, che significa “soffrire” (da cui, “passione”). In questo senso, la Pasqua come “passione” nel senso di sofferenza ben si sposerebbe con la vicenda storia di Gesù di Nazareth e della sua morte patita, sofferta e sofferente nei giorni della Pasqua ebraica di ormai quasi 2000 anni fa. “Passaggio” e “passione”, “passaggio” e “sofferenza”: due facce di un'unica medaglia che dopo diversi millenni hanno ancora molto da dire all'uomo contemporaneo.

Il concetto di “sofferenza” credo abbia ben poco da spiegare: sappiamo tutti perfettamente cosa significhi soffrire. Ognuno di noi potrebbe fare la lista delle sofferenze: delle proprie e di quelle dell'umanità intera. Anzi, complici anche i mezzi di comunicazione sociale, ci viene quasi da dire che riguardo all'umanità, non possiamo che fare l'elenco delle sofferenze: e non parlo solo di guerra o di pandemia, punto focale delle notizie quotidiane su giornali, televisioni, radio e social network; parlo anche di tutte quelle notizie di cronaca nera, o comunque piene di elementi negativi, che continuamente ci assillano perché pare che siano le uniche notizie che ancora riescono a fare cassa. Circondati e bombardati e di negatività, non siamo certo invogliati a vedere il bene non solo attorno a noi, ma anche dentro di noi: arriviamo infatti a convincerci che anche noi - come il mondo - siamo pieni di sofferenze e di negatività le quali, per quanto vere possano essere, non sono comunque assolute, e tantomeno eterne. Anch'esse sono “di passaggio”. Come lo è il mondo. Come lo siamo noi.

Ed è forse proprio questa dimensione del “passaggio”, in tutto ciò che siamo e che facciamo, a dirci la dimensione più vera e più bella della Pasqua. Perché la Pasqua è un “passaggio” come “di passaggio” siamo anche noi. Non siamo qui in eterno, e proprio per questo non ci dobbiamo sentire eterni. Siamo qui di passaggio, e anche nella migliore delle ipotesi, è un passaggio che dura poco, comparato ai secoli che ci hanno preceduto e che - speriamo molti - verranno dopo di noi: perché mai dovremmo vivere come se ci sentissimo eterni? Perché mai dobbiamo comportarci come se il mondo iniziasse e finisse con noi? Perché mai dobbiamo pensare che tutto ruota attorno a noi? Perché dobbiamo mettere le nostre sofferenze e le nostre pretese al centro dell'attenzione, come se fossero le sofferenze e le pretese di tutti quando, in realtà, siamo “di passaggio”?

Anche dal punto di vista della fede, non dimentichiamoci che, se siamo un popolo che nasce dalla Pasqua di Cristo, siamo chiamati a vivere la nostra fede con questa dimensione del passaggio.

Di statico, nella resurrezione di Cristo, non c'è proprio nulla. È il Calvario che ci rende statici; è il Calvario che ci immobilizza, che ci fa “stare” sotto la croce come stavano Maria e Giovanni, pietrificati dal dolore. Ma quella pietra del dolore che ha indurito il nostro cuore sul Calvario, a Pasqua viene rotolata via. Neppure esta sta più ferma: rotola via, si muove. E con lei ci muoviamo tutti: le donne che corrono via dal sepolcro, Pietro e Giovanni che al sepolcro accorrono, i due di Emmaus che di corsa tornano a Gerusalemme, Pietro che si getta in mare per raggiungere a nuoto il Signore dopo una pesca miracolosa.

Da allora, la Chiesa non si è più fermata; da allora, la Pasqua ci ha resi tutti quanti “di passaggio”, consapevoli dell'inevitabilità della sofferenza ma anche della sua limitatezza, consapevoli che rimanere statici sulle nostre posizioni non fa progredire l'annuncio di gioia del Vangelo. Consapevoli, soprattutto, che la forza della vita è infinitamente più grande del dolore e della morte: e pure essi, ovviamente, sono solo “di passaggio”.

 

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