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TESTO Tacere, ascoltare, pregare

don Alberto Brignoli   Amici di Pongo

II Domenica di Quaresima (Anno C) (13/03/2022)

Vangelo: Lc 9,28-36 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 9,28-36

28Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. 30Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. 32Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. 34Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. 35E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». 36Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

Una settimana fa, iniziavamo il cammino domenicale della Quaresima nel segno del deserto; un deserto che, letto in profondità, era a sua volta segno del lungo pellegrinaggio del popolo di Dio nel deserto dell'Esodo, di cui il numero quaranta - giorni per Gesù, anni per il popolo d'Israele - era l'elemento comune. Gesù termina la sua esperienza nel deserto intesa come luogo di ritiro, di incontro con Dio e di lotta con il male, ma non abbandona l'idea di deserto come atto di liberazione, come azione che porta il credente a fidarsi di lui anche nell'aridità e a seguirlo in quel lungo peregrinare che è la vita umana: un peregrinare che porta il credente con Gesù a pregare, ancora una volta su un monte (anzi “sul” monte, lo chiama Luca, quasi fosse già a tutti ben chiaro che si trattasse del monte Calvario. su cui manifesterà la sua gloria). Ed è proprio il momento della preghiera quello che rivela la forza liberatrice di Gesù. Perché, mentre pregava, “il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”. Veste candide e sfolgoranti, nel vangelo di Luca, le vedranno le donne il mattino del giorno dopo il sabato, indossate da due giovani che all'interno del sepolcro annunceranno a loro che Gesù “non è qui, è risorto”; un volto cambiato d'aspetto lo vedranno in Gesù due discepoli che la sera di quello stesso giorno, tornando da Gerusalemme a Emmaus, camminando per alcuni chilometri fianco a fianco con lui, lo scambieranno per un viandante qualsiasi fino a quando spezzerà il pane davanti a loro, come nell'ultima cena. Che la Trasfigurazione di Gesù, descritta da tutti e tre i vangeli sinottici, sia la narrazione postuma e riletta in chiave spirituale del momento della Resurrezione di Gesù (alla quale nessuno ha assistito in diretta, peraltro) è ormai assodato; ma perché possa essere compresa nella sua pienezza, deve essere inserita nel percorso di liberazione e di salvezza di cui l'Esodo e il deserto sono l'emblema.

Ecco perché Gesù, sul monte della Trasfigurazione, “parla del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme”: un esodo che non durerà certo quarant'anni come quello del popolo d'Israele, ma che comunque, per compiersi, passerà attraverso una sofferenza (la croce) di cui le vicende sofferenti del popolo d'Israele erano un segno, sin dal momento in cui immolano l'agnello pasquale la sera prima del passaggio del Mar Rosso. Un esodo che non sarà liberazione da un popolo che opprime, come fu in Egitto e come forse sperava nei confronti di Roma la maggior parte dei Giudei accorsi a Gerusalemme per la Pasqua dell'anno 33; sarà una liberazione da ciò che per il popolo d'Israele rappresentava una sicurezza (il Tempio, con tutto l'apparato di norme, precetti e istituzioni legati alla Legge), ma dietro la quale si celava la più diabolica delle tentazioni, quella di assoggettare Dio proprio a questo apparato di potere, perdendo così l'essenza più profonda di Dio stesso, ovvero il suo volto di Padre. Ed è proprio perché si proclamava Figlio di Dio che i capi del popolo lo metteranno in croce.

Ma quella che per loro fu una condanna, per Gesù e per i credenti in lui fu una liberazione, un vero e proprio esodo, il vero sacrificio pasquale che ha donato al mondo la salvezza. Di questo suo “esodo”, Gesù, sul monte, parla con Mosè ed Elia, i due liberatori per eccellenza del popolo d'Israele: Mosè, il leader dell'Esodo dall'Egitto, colui che con Dio era già abituato a parlare “faccia a faccia”; Elia, il più grande tra i Profeti pur senza mai aver scritto nulla, colui che libera il popolo dai falsi culti introdotti in Israele da Acaz e Gezabele, anch'egli reso degno di incontrare Dio faccia a faccia sull'Oreb. È con loro che parla Gesù, sul monte.

Eppure, sul monte ci era salito con tre discepoli, i migliori fra i discepoli, Pietro, Giovanni e Giacomo. Che fine hanno fatto? Perché non sono loro a parlare con Gesù del suo esodo, dal momento che Mosè ed Elia avevano già fatto l'esperienza di parlare faccia a faccia con Dio? Beh, francamente non doveva essere facile per Gesù parlare con i suoi tre compagni di viaggio, quel giorno. La loro reazione di fronte a quello che stava accadendo fu sconcertante: dormivano. E quando si svegliano, avanzano una proposta che definire insensata è un eufemismo: “Facciamo tre capanne”. Non era certo, come spesso pensiamo, il desiderio di fermare quel momento di grande contemplazione per coglierne la ricchezza. Era, piuttosto, il loro modo di celebrare l'Esodo, quello di ricordarlo con la festa di Sukkot, la Festa delle Capanne, in cui, per una settimana intera, gli ebrei ricordavano il momento della loro permanenza nel deserto dopo la liberazione, vivendo all'interno di capanne costruite per l'occorrenza. Rivivere l'esodo, per loro, non significa altro che fare festa e gozzovigliare. Non avevano colto nulla dell'esodo di Gesù, tantomeno della gloria che si stava loro manifestando dinanzi.

E allora ci pensa il Maestro a farli tacere: li immerge nella nube, anch'essa reminiscienza dell'esodo, luminosa per i figli di Israele, tenebrosa per tutti coloro che non comprendono la gloria di Dio. Per i tre discepoli, infatti, la nube non è gloria, ma timore. Presi da paura perché diametralmente opposti rispetto al piano di salvezza di Dio, ci pensa di nuovo Dio a salvarli, chiedendo loro di tappare la bocca e di aprire le orecchie, imparando così ad ascoltare la voce del suo Figlio diletto. Finalmente, “tacquero, e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto”. E menomale, così avevano tutto il tempo di rimanere in silenzio e fare ciò che fino ad allora non erano stati capaci di fare: pregare, invece di dormire (ma ce ne vorrà ancora prima che capiscano, visto come andrà a finire nel Getsemani...) e ascoltare la parola del Maestro.

Esattamente quello che ci viene chiesto nel nostro annuale esodo quaresimale: restare in silenzio, ascoltare e pregare. Esattamente l'opposto di quello che spesso facciamo e che, alla fine, vediamo fare dagli uomini e dalle donne del nostro tempo, ancor più in questi tempi di emergenze, dove tutti parlano, parlano, parlano, e nessuno ascolta; dove tutti si spacciano esperti di tutto, di strategie militari, di politiche economiche, di carburanti e di fonti alternative di energia, di virologia e di pandemie, propinando a ritta e a manca soluzioni immediate e facili invece di tacere, ascoltare, e soprattutto pregare.

Che alla fine, insieme alla solidarietà e alla carità, sono le armi più efficaci che abbiamo per vincere qualsiasi guerra.

 

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