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TESTO Una trappola per Gesù

don Fulvio Bertellini

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/10/2005)

Vangelo: Mt 22,15-21 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

La realtà

La prima scena che l'evangelista ci presenta è il complotto ai danni di Gesù. I suoi avversari si radunano, discutono, progettano, elaborano un piano per metterlo in difficoltà grave. Comincia qui l'ironia che pervade tutta la narrazione: fin dall'inizio il complotto, che gli avversari vorrebbero tenere nascosto, è a conoscenza del lettore. In seguito sappiamo che anche Gesù ha capito le loro intenzioni.

La finzione

Il piano è ben architettato. Vengono mandati avanti i discepoli dei farisei: in tal modo i capi evitano di esporsi personalmente, mentre Gesù è costretto a entrare direttamente nella mischia. Inoltre i principianti non hanno nulla da perdere: non è disonorevole per un alunno imparare da un altro maestro. Però hanno tutto da guadagnare: un principiante, debitamente istruito con una domanda insidiosa, può vantarsi di mettere in difficoltà un maestro affermato, come ormai è ritenuto Gesù.

Anche la greve e scoperta adulazione che pervade le loro parole ("sappiamo che sei veritiero...") non ha altro scopo che innalzare Gesù su un piedistallo alto ma insicuro, da cui possa cadere con il maggior danno possibile.

Accanto ai discepoli dei farisei vengono convocati i partigiani di Erode, sostenitori di un regno compromesso con il potere romano, e non solo a parole. Sono in gioco interessi molto concreti: le loro ricchezze, la loro dignità pubblica, la stessa vita. Se venisse rovesciato il tiranno, sarebbero in pericolo mortale anche loro.

Di tutto questo però non si parla esplicitamente: la domanda è posta dal punto di vista teologico-religioso, se sia cioè ammissibile, dal punto di vista della legge di Mosè, pagare le tasse a un governo straniero, che pretende addirittura di avere una connotazione divina. Non sembra esserci alternativa: qualunque risposta venga data, Gesù sarà rovinato.

Lo sguardo limpido

La prima parola di Gesù smaschera immediatamente la finzione. Alle parole melliflue degli interlocutori, Gesù risponde chiamandoli "ipocriti". Nel nostro linguaggio è un'espressione che ha assunto un valore peggiorativo, quasi un insulto. In greco "hypokritès" significava "colui che interpreta", da cui, in senso teatrale, "colui che interpreta un testo", che recita una parte, quindi "l'attore". Gesù smaschera la recita dei discepoli dei farisei semplicemente chiedendo loro una moneta. Una moneta romana, che essi stessi si ritrovano in tasca, con cui forse si pagano da vivere o che è il frutto dei loro affari.

La via d'uscita

Il detto finale di Gesù, "date a Cesare quel che è di Cesare, e date a Dio quel che è di Dio", permette a Gesù di togliersi elegantemente dalla questione. Gli avversari gli pongono un trabocchetto senza uscita, lui ne esce ponendo un enigma che essi non sanno risolvere. Gesù si è rivelato effettivamente, senza che essi lo volessero, come il "maestro veritiero" che non guarda in faccia a nessuno. Allusivamente, possiamo intuire il senso delle parole di Gesù: l'impero romano è una realtà con cui occorre fare i conti; coloro che vivono con il denaro, con i traffici, con gli affari permessi dall'impero romano, non possono fare a meno di pagare le sue tasse. Ma l'impero romano non è l'unica istanza: c'è qualcosa che sfugge al controllo dell'imperatore, e che appartiene soltanto a Dio. Qui sta l'enigma da risolvere, il filo di rasoio su cui camminare. Che cos'è quest'ambito che appartiene soltanto a Dio? Oggi si tende a rispondere che è la coscienza privata di ciascuno. Non fu questa la risposta di Gesù, che morì pubblicamente sulla croce. Non fu questa la risposta dei martiri, che accettarono di morire pur di non rinnegare pubblicamente la loro fede. Si può confinare la fede nel privato? O ci sono dei risvolti pubblici, che lo Stato deve riconoscere? E fino a che punto?

Alcune domande finali

A questo punto la discussione si fa bollente ed anch'io, come gli avversari di Gesù, me la cavo svicolando. Gli avversari di Gesù se ne vanno perché, fallito il loro tranello, comincia la fatica della ricerca, che essi non intendono accollarsi. Anch'io me ne vado, perché appunto occorre accollarsi la fatica della ricerca. Non da solo, ma insieme ad altri, e in queste colonne resta solo lo spazio per qualche domanda. Nei cristiani oggi, nelle nostre parrocchie, nei nostri gruppi di adulti, di giovani, c'è ancora la voglia di cercare e di interrogarsi sul rapporto tra fede e vita pubblica, tra l'essere cristiani e l'essere cittadini? C'è la voglia di andare oltre i facili slogan ("salvaguardare la laicità dello Stato", "ingerenze della Chiesa cattolica", "rifare il tessuto cristiano della società", "non escludere Dio dalla vita pubblica") per stabilire un dialogo autentico? Si può lasciare questo dibattito ai soli mezzi di comunicazione di massa, con le loro distorsioni? E la condotta dei cristiani (non solo quella dei vescovi...) è sufficientemente credibile perché possano intervenire, con le parole e con le azioni?

 

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