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TESTO “Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e ascoltato”

don Alberto Brignoli  

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XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (24/10/2021)

Vangelo: Mc 10,46-52 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 49Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». 52E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

“Testimoni e profeti” - “Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”: su questo slogan, che riprende il messaggio di Papa Francesco, si snoda la riflessione intorno a questa Giornata Missionaria Mondiale, appuntamento che sempre caratterizza la penultima domenica del mese di ottobre, da 95 anni a questa parte. Un appuntamento antichissimo, se pensiamo che nessun'altra Giornata Mondiale nella Chiesa, eccezion fatta per quella del Migrante e del Rifugiato, viene celebrata da ormai quasi un secolo. E questo perché la realtà missionaria non è una delle tante realtà della Chiesa, non è una delle sue tante attività, non è una delle molte pastorali che vengono portate avanti: fa parte della sua natura. O la Chiesa è missionaria, o non è Chiesa; o la Chiesa annuncia il Vangelo, o non è Chiesa; o la Chiesa si fa prossima a ogni donna e a ogni uomo, specialmente a quelli che soffrono, o non è Chiesa. Sono discorsi che spesso facciamo, e che richiamiamo alla mente appunto in occasioni come queste, magari una volta sola all'anno, e poi ce le scordiamo per il resto dei nostri giorni, fino a quando appunto la Liturgia o il Calendario ce lo rammentano. Ma, come dice il titolo del messaggio del Papa, tratto da un'affermazione di Pietro e Giovanni all'inizio degli Atti degli Apostoli, noi “non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”.

E cos'è quello che abbiamo visto e ascoltato e che non possiamo tenere nascosto? Testimonianza e profezia (le due caratteristiche della missione che quest'anno siamo chiamati a mettere a fuoco) ci stimolano a raccontare agli altri quello che rappresenta per noi l'aver incontrato il messaggio del Vangelo: vuole dire “parlare agli uomini in nome di Dio” (la profezia) senza la pretesa di insegnare agli altri dottrine o comportamenti che noi stessi per primi fatichiamo a compiere, ma solamente “testimoniando” quanto per noi sia stato bello, importante, fondamentale, l'incontro con la persona e il messaggio di Gesù. In virtù del battesimo, tutti siamo chiamati a svolgere questa missione; ma poi, all'interno della Chiesa, come avviene per ogni vocazione, ci sono esperienze che in maniera speciale hanno avuto la possibilità - io direi il dono - di testimoniare, anche in forma profetica, ciò che è stato visto e ascoltato.

L'esperienza della missione “ad extra”, ovvero fuori dai confini della propria chiesa locale e spesso anche della propria patria, è qualcosa che dà la possibilità, a chi la vive, di raccontare, di narrare ciò che si vede e si ascolta come qualcosa di profondamente diverso dalla quotidiana routine e dal quotidiano modo di vivere la fede che abbiamo ricevuto. E questo, non per fare del folklore intorno alla fede o per suscitare pensieri che richiamano a dimensioni “esotiche” della vita: per quello, è sufficiente fare un viaggio o una vacanza all'estero, senz'altro molto più gratificanti e rilassanti di un'esperienza missionaria, che dentro di sé ha invece una ricchezza, una grande potenzialità, quella di cambiare la vita e il modo di vedere le cose da parte di chi la vive e, forse, anche di chi viene in contatto con chi l'ha vissuta.

Io difficilmente racconto in maniera diretta ciò che ho vissuto nella mia breve ma intensa esperienza missionaria, sia nel contatto con le Chiese sorelle di altri paesi, sia nel contatto con le Chiese locali della nostra Italia; ma quando mi viene chiesto di farlo, come in questa circostanza, cerco sempre di fare emergere ciò che ho visto e ascoltato, ossia ciò che io ho avuto modo di sperimentare e di conoscere ancora prima di ciò che ho potuto fare e dire.

Spesso, infatti, abbiamo la convinzione che il missionario sia uno che parte per altre terre dove sarà chiamato ad annunciare, celebrare, fare, costruire, disfare, cambiare, sviluppare, eccetera. La mia sarà anche una visione un po' troppo “egoistica”, ma io sono convinto che l'esperienza missionaria è servita più a me che alle persone a cui sono stato mandato o che ho incontrato. E mi è servita soprattutto perché mi ha dato la possibilità di vedere e ascoltare cose diverse da quelle che ho visto e ascoltato nella mia terra, e che davvero hanno contribuito a cambiare il mio modo di vivere, e soprattutto di credere. Non che l'esperienza di missione renda necessariamente “migliori” le persone che la vivono: io dico sempre che, per la sua dimensione di essenzialità e anche per la “crudità” di certe situazioni con le quali vieni a contatto, la missione ti mette “a nudo e crudo” in ciò che sei, facendo emergere tutti i tuoi difetti e tutti i tuoi pregi o le tue capacità. Per cui, se hai un pessimo carattere, la missione farà emergere ancor di più il tuo pessimo carattere; e se hai un cuore generoso e attento, la missione ti renderà ancor più attento e generoso. Di certo, però, l'esperienza missionaria ti “rivolta come un calzino”, ovvero ti costringe a buttare all'aria tanti tuoi schemi e tante tue visioni e ti obbligare a vedere e ascoltare ciò che ti circonda per capire quanto bello sia ciò che tu hai ricevuto dalla tua Chiesa, dalla tua patria, dalla tua famiglia, e quanto - al tempo stesso - tutto questo sia limitato e limitante.

Fare un'esperienza missionaria con le orecchie e gli occhi aperti (ma anche con le narici!), più che con la bocca e le mani spalancate, ti aiuta a valorizzare ciò che hai avuto sin dalla nascita e dalla tua educazione nella fede, ma anche a vederne il limite, soprattutto riguardo a certe convinzioni. Torni nella tua Chiesa da un'esperienza di missione e impari a vedere le cose in maniera diversa, a tollerare cose che prima non accettavi, ad avere più apertura mentale verso situazioni concrete della vita quotidiana della gente, a non pensare che le verità che hai imparato e ricevuto dalla tua educazione siano la sola e unica verità della vita, a intravedere strade e cammini che prima non avevi percorso, a buttare all'aria l'idea che “bisogna fare così perché si è sempre fatto così”... Ripeto: non perché la missione ti abbia reso migliore, ma perché ti ha aperto gli occhi e le orecchie, e allora non riesci più a tacere ciò che hai visto e ascoltato. Anche con uno sguardo profetico, ovvero quello di non tacere di fronte alle ingiustizie, alle disuguaglianze, ai soprusi, tanto quelli sperimentati nel sud del mondo, quanto quelli che quotidianamente ti trovi ad affrontare nel tuo paese e nella tua città.

Per riprendere quanto narrato nel Vangelo di oggi, chi è chiamato a vivere un'esperienza missionaria riceve la stessa chiamata ricevuta da Bartimèo, che di fronte al Signore che passa si sente dire “Coraggio, alzati: ti chiama!”: e l'incontro con Gesù, figlio di Davide, ti apre gli occhi, per vederci di nuovo in maniera corretta e seguirlo là dove egli vuole che tu vada.

 

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