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TESTO Salvati dalla Carne

don Alberto Brignoli  

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XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (08/08/2021)

Vangelo: Gv 6,41-51 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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41Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». 42E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».

43Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. 44Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.

48Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Nella Bibbia, molte sono le azioni che l'uomo di fede compie nei confronti di Dio; e quando vengono descritte le azioni “verbali” (ossia, le parole che vengono rivolte a lui), generalmente si parla di preghiere, di suppliche, di lodi, di ringraziamenti, di richieste di perdono o di aiuto. Ma non c'è solo quello: l'uomo di fede, il credente, si trova spesso anche a dire parole di protesta nei confronti di Dio, oppure - come ci dice il Vangelo oggi - a “mormorare” nei confronti di Dio.

La protesta del credente verso Dio fa parte del cammino di fede, e potremmo anche definirla lecita, soprattutto quando il credente si vede costretto a subire una serie di ingiustizie, di prove e di disgrazie che non rappresentano certo una risposta adeguata, da parte di Dio, alla sua vita di credente. Su tutti, la parabola di Giobbe, oppure la vicenda storica di Geremia: ma non solo.

La saga stessa del profeta Elia parla in questo senso: e infatti, vediamo nella prima lettura l'episodio della fuga di Elia verso l'Oreb, dettata dalla necessità di mettersi al riparo dall'ira della regina Gezabele, che voleva vendicare l'uccisione, da parte di Elia, dei quattrocentocinquanta profeti di Baal al termine della sfida sul Monte Carmelo. Un modo cruento, il suo, di rispondere alla volontà di Dio di affermarsi come l'unico Dio d'Israele: a Elia era toccata l'incombenza di eliminare i falsi profeti, a Elia tocca ora mettersi al riparo dall'ira dei sovrani idolatri e pagani. E tutto questo, per volere di Dio; cosa che porta Elia, stremato dalla fame e dalla sete nel deserto, a protestare contro Dio, invocando da lui la morte come soluzione di tutti i problemi: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”.

A volte, invece, le parole rivolte contro Dio sono frutto, come dicevamo, di “mormorazioni”, che hanno certamente un sapore diverso rispetto a parole di protesta e di sconforto. Frutto di mormorazioni sono quelle parole rivolte a Dio da parte dei suoi fedeli (direttamente, o attraverso il confronto più o meno acceso con Gesù) perché incapaci di accettare che egli sia diverso da come se lo immaginano o da come la tradizione che hanno ricevuto lo ha loro trasmesso. Per cui, nella lettura di questo capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, assisteremo più volte a mormorazioni da parte delle autorità religiose dei Giudei per l'immagine di Dio che Gesù pretende di incarnare: un Dio “disceso dal cielo”, un Dio “pane di vita”, un Dio “mandato direttamente dal Padre”, un Dio che dona una vita che dura più di quella donata dal Dio dell'Esodo, un Dio che, addirittura, dona la propria “carne” come “pane per la vita del mondo”. Anche ai suoi discepoli risulterà difficile, alla fine, accettare queste parole e questa immagine di Dio: da qui, la mormorazione contro il Dio di Gesù Cristo e l'abbandono da parte di molti dei suoi seguaci.

Certo, le due forme di protesta nei confronti di Dio sono ben diverse tra di loro: se qui c'è una fatica ad accettare un Dio diverso da come i Giudei l'hanno in testa a motivo della loro chiusura alla novità del Vangelo, nel caso di Elia la protesta è frutto di un senso di solitudine e di abbandono da parte di Dio che coglie il profeta nel momento in cui cerca di essere il più possibile fedele a lui. Le due rimostranze verso Dio non sono la stessa cosa, non hanno lo stesso sapore. E spesso lo comprendiamo bene anche noi, quando da una parte ci troviamo a mormorare contro Dio perché non lo capiamo, perché le sue parole sono difficili, perché dopo tanto tempo che noi abbiamo professato la nostra fede e vissuto il cristianesimo in un certo modo, poi ci viene chiesto di mandare a monte tutto e di riscoprire un'immagine di Dio diversa e che, magari, più di tanto non ci garba; e dall'altra sperimentiamo verso Dio un senso di sconforto e di abbandono nonostante facciamo di tutto per rimanergli fedeli, nonostante cerchiamo sempre di fare la sua volontà, nonostante accettiamo anche, in suo nome, di affrontare prove e fatiche. A tutto, però, c'è un limite: e allora anche noi, come Elia, a volte ci troviamo a dire “Ora basta, Signore!”.

Per fortuna, in questa nostra richiesta di farsi da parte, il Signore non ci ascolta. Anzi: si fa ancora più vicino a noi e ci dona un Pane che ci dà la forza di riprendere il cammino. Anche alle mormorazioni contro di lui, il Signore risponde con il dono del medesimo Pane di vita eterna. Che cos'ha di così particolare questo Pane, capace di mettere a tacere chi non accetta un Dio diverso da come ce l'ha in testa, e capace di ridare forza e vigore a chi, invece, da Dio si sente abbandonato?

Non è semplice comprenderlo, e ce ne accorgeremo man mano ascolteremo questo discorso di Gesù ai Giudei. Una cosa è certa: sappiamo di che “pasta” è fatto questo Pane, di che cosa si tratta. “Il pane che io darò è la mia carne per la vita eterna”. La chiave sta tutta in quella “carne” che è l'essenza di questo pane di vita. La “carne”, nel Vangelo, indica la vita umana nella sua dimensione più essenziale, più umana nel senso letterale del termine, ovvero più debole, più sottoposta alla fragilità e alla caducità. Ebbene, proprio quell'elemento della nostra natura umana - la debolezza - che per noi rappresenta un limite ai nostri sogni di potere, di realizzazione, di successo, diviene strumento della nostra salvezza. Quell'elemento che per noi è sinonimo di fragilità, di pochezza, di tutto ciò che è l'esatto contrario dell'onnipotenza divina, diventa il luogo in cui Dio si rivela e si fa una sola cosa con noi.

Le nostre fatiche e i nostri smarrimenti nei confronti di Dio, allora, non sono segno della nostra poca fede, bensì il luogo in cui Dio si fa prossimo a noi e ci nutre con un cibo che ci ridona la forza di andare avanti. E se questo cibo, per noi credenti, è l'Eucarestia, non abbiamo timore di partecipare al Banchetto Eucaristico solo perché siamo fragili, pieni di peccati e indegni di accostarci a lui: il Pane portato dall'angelo del Signore a Elia - il Pane vino disceso dal cielo - non è il premio dato a chi è forte nella fede, ma è l'alimento che ridona forza a chi, questa forza, la perde a causa della propria debolezza, della propria fragilità, della propria umanità.

Gesù non si fa Pane di Vita per restare chiuso un tabernacolo: e se proprio ci deve restare, che resti nel tabernacolo di carne del nostro cuore.

 

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