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TESTO Senza troppi entusiasmi

don Alberto Brignoli  

XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (18/07/2021)

Vangelo: Mc 6,30-34 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 6,30-34

30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.

34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Domenica scorsa, il Signore aveva mandato i Dodici in missione, trasformandoli così da “discepoli”, ovvero da gente che fondamentalmente doveva “imparare”, doveva mettersi alla scuola del Maestro, in “apostoli”, termine che significa “inviati”, gente che riceve un incarico dal Maestro e, in nome suo, compie gesti e pronuncia parole. L'incarico della scorsa settimana si concentrava su tre aspetti: il richiamo alla conversione, la lotta contro lo spirito del male, la vicinanza e la guarigione dei malati. Ora gli apostoli ritornano, forti di questa missione, e raccontano a Gesù “tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”. Da questa espressione, traspare davvero l'entusiasmo dei Dodici, che non stanno più nella pelle di dire a Gesù quanto siano stati bravi. E che la loro missione fosse stato un successo totale, lo si vede chiaramente dalla folla che li insegue entusiasta, senza lasciar loro neppure il tempo di mangiare. Il testo parallelo del Vangelo di Luca parla proprio degli inviati che tornano “pieni di gioia perché anche i demoni si sottomettevano a loro”. Ci pensa Gesù, allora, con un pizzico di pragmatismo e di sano realismo, a riportare normalità e tranquillità nel gruppo, invitando i Dodici a ritirarsi in un luogo deserto, loro da soli, per riposarsi un po'. E lo fa per ben due volte, visto che è costretto dalla folla osannante a caricare il gruppo sulla barca per raggiungere la sponda opposta del lago. Ma la gente non demorde: facendo il giro a piedi, o forse vedendo la barca dalla riva opposta, tutti corrono e li precedono là dove approderanno. Una volta arrivati dall'altra parte, Gesù non permette ai suoi di scendere dalla barca: scende lui solo, e preso da compassione per “un gregge di pecore senza pastore”, torna a insegnare alle folle molte cose.

E i discepoli-apostoli? Perché spariscono dalla scena? Come mai non concede loro lo spazio che si merita chi ha ottenuto un grande successo nella missione? Ci viene naturale pensare che siano rimasti isolati sulla barca, o che siano andati - come il Maestro ha chiesto loro - a cercare un luogo deserto per stare un po' in disparte. In disparte non solo geograficamente: anzi, in disparte soprattutto spiritualmente, in una sorta di silenzio di meditazione che li aiuti a far “decantare” le facili gioie del successo, a smorzare gli entusiasmi di una missione che ha certamente “colpito nel segno” le folle.

Mi piace trovarlo qui, il significato principale di questo brano di Vangelo: in questo “riposo pastorale” che non è solo “staccare la spina” da ciò che abitualmente si fa per trovare un momento di riposo, come giustamente a molti è concesso di fare in questo periodo di vacanze estive.

Il riposo a cui Gesù chiama i suoi apostoli è il riposo di chi è chiamato a far riposare la mente “inebriata” quando torna a casa da un'esperienza pastorale e spirituale molto arricchente, dalla quale ha ottenuto molto per la propria vita, ma a motivo della quale si rischia anche di uscirne “ubriacati”, “esaltati”, al punto di non vedere e di non pensare ad altro se non a quella esperienza spirituale, come se quella fosse il “non plus ultra”, come se quella fosse l'unica esperienza che riempie il cuore, come se la straordinarietà di quel momento diventasse l'ordinarietà, la quotidianità, ciò che poi si deve ripetere, se non ogni giorno, ogni qualvolta sia possibile.

Un rischio molto presente anche oggi, in tanti di noi credenti: si vivono, spesso, intense esperienze spirituali che ci danno molto, senza dubbio, ma che rischiano di farci diventare eccessivamente entusiasti, quasi “invasati” rispetto all'esperienza stessa, se poi non siamo capaci di ritornare nella vita di ogni giorno con la semplicità e l'ordinarietà di forme spirituali e pastorali che spesso non portano con sé tutto l'entusiasmo che abbiamo trovato in quelle forme straordinarie. Pellegrinaggi, grandi ritiri spirituali, intense esperienze formative, momenti di preghiera che danno forza allo spirito perché vissuti in gruppo - e spesso in gruppi chiusi e riservati a pochi - sono tutte esperienze meravigliose che, se vogliono poi essere rivissute nelle stesse modalità, con le stesse persone e con la medesima intensità anche nella vita spirituale e pastorale ordinaria, rischiano di creare una fede “invasata”, “entusiastica”, “elitaria” dalla quale è bene cercare di “riposare” un po', perché il rischio di vedere l'ordinario come brutto, limitato, poco valido, è molto forte.

Ecco perché il sano realismo di Gesù invita i suoi apostoli tornati discepoli a “stare un po' in un luogo deserto”: perché il luogo deserto non è solo il luogo della solitudine (e stare un po' da soli, con se stessi, per riflettere sulle esperienze di fede vissute è una gran cosa, aiuta a valorizzare con profondità quanto si è vissuto). Il luogo deserto è anche il luogo dell'aridità, della secchezza, della mancanza di fonti di acqua viva, nel quale si gioca la nostra fedeltà al Vangelo. È facile, è bello ed è gratificante essere cristiani ferventi in luoghi e situazioni che scaldano il cuore, che rigenerano l'anima, che rendono fertile lo spirito: ma la fedeltà a Dio, il popolo d'Israele l'ha sperimentata in quarant'anni di deserto, dove Dio spesso tace e dove l'arsura della fede si fa sentire e mette a prova anche i credenti più devoti.

E poi, lo stile con cui Gesù scende dalla barca e si mette a insegnare molte altre cose alle folle, dev'essere lo stile che contraddistingue ogni cristiano, in modo particolare chi è inviato ad annunciare la Parola di Dio, o si sente tale solo perché “ha fatto esperienze profonde” rispetto a chi non ha avuto questa opportunità. Lo stile dell'apostolo dev'essere quello della “compassione”, della pietà, della misericordia verso un gregge che spesso è solo, senza pastore, senza guida, senza punti di riferimento. Essere apostoli, inviati ad annunciare la Parola, ed essere uomini e donne di misericordia e di compassione sono un'unica cosa, sono una conseguenza ineluttabile. Ma questo lo si comprende facendo un po' di silenzio e di deserto: perché fare grandi esperienze spirituali e diventare rigorosi, esigenti, intransigenti, e forse anche un po' integralisti nel vivere la fede, senza un po' di attenzione e di comprensione verso chi fa fatica a vivere anche solo l'ordinarietà del credere, è un male che, nella Chiesa, è molto più diffuso di quanto si creda.

Gesù non è venuto a creare un popolo di apostoli eletti ed elitari: come ci dice bene Paolo nella seconda lettura, “è venuto ad annunciare la pace a coloro che erano lontani e pace a coloro che erano vicini”, senza differenze e senza distinzioni.

 

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