TESTO Potenti cedri e miseri alberelli di senape
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
XI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (13/06/2021)
Vangelo: Mc 4,26-34
26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Dal momento in cui Israele diviene un popolo, con una legge, un territorio e un'identità culturale - ossia, dall'esperienza dell'Esodo in poi - inizia a confrontarsi con gli altri popoli, rispetto ai quali si ritiene generalmente fortunato e privilegiato perché sa di avere vicino a sé Dio in una forma che tutti gli altri popoli non hanno. Quando però il raffronto si sposta su altri temi, Israele sente tutta la propria pochezza, rispetto ai grandi regni e imperi di quel tempo: possiede un territorio molto limitato, un esercito scarsamente dotato e poco preparato (parlo di quello di allora, ovviamente...), un'organizzazione statale ancora un po' “tribale” o “nomade”, un'economia basata prevalentemente su pastorizia e agricoltura. E proprio su quest'ultimo aspetto - l'agricoltura - non poteva certo vantare chissà quali risorse: l'esperienza di quarant'anni nel deserto aveva fatto sperare in una Terra Promessa “dove scorre latte e miele”, salvo poi ritrovarsi in un territorio che (a parte la valle del Giordano) di fertile e rigoglioso aveva ben poco, in quanto prevalentemente desertico e roccioso. Il paragone con la rigogliosità di altri territori era inevitabile: ed era perdente soprattutto sull'imponenza delle piante e degli alberi che altri popoli possedevano in abbondanza nelle loro terre. Pensiamo ai potenti cedri del Libano, alle imponenti querce delle foreste sui monti di Basan, ai fluenti salici di Babilonia, divenuti il simbolo dell'esilio e della tristezza, e forse proprio per questo da allora definiti “piangenti”: tutti alberi che il popolo di Israele incontrava solo raramente sul proprio territorio, ma che di fronte alla potenza di Dio potevano vantare ben poca resistenza. Il Signore, infatti, forte e potente, “schianta i cedri del Libano” (simbolo delle potenze nemiche) e li rimpiazza con la bontà del giusto, con la santità del suo popolo, che egli “farà fiorire come palma e farà crescere come cedro del Libano”, come ci ricorda anche il Salmo 91 nella Liturgia odierna.
Eppure, anche la fragile pochezza degli arbusti che crescevano nell'aridità del suo territorio poteva trasformarsi in ricchezza. Ed è proprio ciò che la Buona Notizia di Gesù fa attraverso le immagini utilizzate nelle parabole del Regno, di cui abbiamo ascoltato un brano nel Vangelo di oggi, quando riprendiamo - dopo la lunga pausa della Quaresima e della Pasqua - la lettura continuata del Vangelo di Marco. Nei versetti precedenti a quelli che abbiamo proclamato, Gesù aveva introdotto il discorso sul Regno di Dio con la parabola del seminatore, nella quale l'efficacia del Regno di Dio non era data dalla bontà o meno del terreno, ma dalla potenza che il seme ha dentro di sé. Quella stessa potenza che porta l'insignificante piccolezza di un seme di senape, pesante meno di un granello di sabbia, a diventare un arbusto che offre riparo agli uccelli del cielo; quella stessa potenza che fa di un chicco di frumento, cioè di un elemento microscopico e apparentemente morto, chiuso nella sua dura corazza, un germoglio di vita che produce frutto abbondante e procura gioia (simboleggiata, in questa parabola, dalla mietitura).
Eppure, di fronte alla maestosità di un cedro del Libano, alla resistenza di una quercia e ai rami rigogliosi di un salice piangente, il granello di senape e il chicco di frumento sono proprio una nullità; il primo, tra l'altro, talmente leggero che viene portato in giro dal vento e si disperde, senza più sapere neppure che fine andrà a fare l'albero cui potenzialmente potrebbe dare vita.
In questo periodo, si è spesso usato - e forse anche abusato - il termine “resilienza”, come quel qualcosa che esprime la nostra capacità di affrontare, adattandoci, i traumi che la vita e le situazioni negative ci mettono davanti, e dai quali abbiamo la possibilità di rinascere più forti; contrapposta, spesso, al concetto di “resistenza”, intesa come opposizione forte e strenua agli stessi traumi, apparentemente segno di potenza e imperturbabilità, ma spesso naufragata in situazioni di totale sfacelo perché poi, a un certo punto, se non ti adatti a ciò che la vita ti fa accadere, nel bene e soprattutto nel male, la tua resistenza cede, e tu schianti. Proprio come un cedro del Libano, che di fronte a una tempesta, per il principio del “frangar, non flectar” (“mi spezzerò, ma non mi piegherò”), si oppone con forza alla violenza del vento, senza piegare alla sua forza i propri rami e finendo, poi, per venire sradicato. L'arbusto di senape, invece, si piega fino a terra, di fronte alla violenza del vento: una violenza a cui è abituato, per la sua piccolezza, fin da quando è seme, perché trasportato qua e là nei luoghi più impensabili e capace, proprio per la sua resilienza, di germogliare anche in mezzo alle rocce più aride, e di dare ombra laddove esiste solo arsura. Come ciò avvenga, è difficile da comprendere: non lo sa l'agricoltore che semina, non lo sa il terreno che lo accoglie, non lo sa neppure lo stesso seme. Eppure, questo avviene, e il seme germoglia.
Non lasciamoci abbattere, nelle varie circostanze della vita, se all'apparenza sembriamo persone insignificanti e prive di forza; non preoccupiamoci se, a differenza delle persone tutte d'un pezzo, ci lasciamo trasportare dalla violenza del vento che ci sballotta di qua e di là; non restiamoci male, se ci dicono che ci pieghiamo resilienti di fronte a ogni situazione avversa e non sappiamo opporci con resistenza a ciò che ci contrasta; e mettiamoci soprattutto in testa che non è dalle cose eclatanti, fenomenali, potenti e sfarzose che nascono le cose più belle e più forti, ma dall'apparente nullità delle cose brutte, di poco conto, inutili agli occhi del mondo ma amate e preziose agli occhi di Dio. La fiaba del brutto anatroccolo che diventa un cigno meraviglioso ha molto da insegnare, ancora: e se è vero - come diceva un famoso cantautore italiano - che “dai diamanti non nasce niente, e dal letame nascono i fiori”, è ancor più vero che la logica del Regno di Dio si basa proprio sulla pochezza, sull'insignificanza, sulla nullità e - per dirla in termini attuali - sulla resilienza.
Forse oggi la seconda lettura, tratta - come di consueto - dalle lettere di Paolo, sarebbe stata “ad hoc” se fossimo tornati a leggere una delle primissime righe scritte da Paolo proprio ai cristiani di Corinto: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”.