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TESTO Commento su Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

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V Domenica di Quaresima (Anno B) (21/03/2021)

Vangelo: Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 12,20-33

20Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. 21Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».

29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». 33Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24).
Mi viene spesso da chiedermi quale similitudine sceglierebbe oggi Gesù, in questa nostra epoca super tecnologica, per indicare alle donne e agli uomini del nostro tempo l'esigenza senza tempo dell'incarnazione. Una incarnazione che non è solo dono e compito dei cristiani, ma di tutte le donne e gli uomini che Egli ama e nei quali, come riferisce il profeta Geremia, Dio metterà «la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore» (Ger 31,33).
Mi chiedo, cioè, quanti dei nostri figli o delle ragazze e dei ragazzi dell'ultima generazione, che pure sanno utilizzare il computer e lo smartphone più sofisticati, hanno visto il gesto sacro e solenne della seminagione: non quello fatto con le macchine, ma quello del contadino che cammina sulla terra e sparge il seme a larghe manate; quanti di essi hanno vissuto, còlto, la pazienza con la quale i nostri nonni attendevano lo spuntare dei teneri germogli di grano. Il seme, durante l'inverno, freddissimo a quei tempi, si era sfatto sotto la scorza gelata del terreno; quanti hanno provato la gioia, dopo la lunga pazienza dell'attesa, della nascita di una nuova primavera? (E mi viene da pensare che anche la Chiesa è tutta una storia di una lunga pazienza, di una sofferenza nascosta nel cuore per i ritardi, per le fatiche di un parto doloroso di quella novità di vita promessa dal Signore. Di quel cuore e di quello spirito nuovo...).
È certo che con la natura non si ritrova più questo rapporto calmo e, al contempo, rispettoso dei ritmi secolari; la relazione si è fatta conflittuale, distruttiva; la natura «deve» essere violata se vogliamo carpirne i segreti più nascosti. Una «relazione prometeica», così la definiva Raniero La Valle, riferendosi alla tragedia di Eschilo, nella quale Prometeo, spezzando un mito sacrale e vincendo un tabù radicato nell'inconscio collettivo dell'essere umano, ruba il fuoco a un Dio possessivo per metterlo a disposizione degli uomini...

Ma quel fiore di grano crescerà. Qui sta la nostra speranza perché, al di là delle esperienze esistenziali di ogni generazione umana, il messaggio di Gesù è tuttavia utilizzabile - per la sua incorruttibile universalità - in ogni tempo e in ogni stagione della vita.
Dalla morte, la vita. Racconta il medico che accompagnava alla forca Dietrich Bonhoeffer, con la calma delle persone di fede incorrotta, il pastore luterano pronunciò queste sole parole avvicinandosi al patibolo: «Per voi è la fine, per me è l'inizio». Una lezione di vita, perché è dalla morte che nasce la vita. Ma quale «morte» e, soprattutto, quale «vita»? Se leggiamo questa pagina dell'Evangelo di Giovanni senza sentire scorrere in tutto il nostro essere un brivido profondo e incontenibile, al di là, certo, dell'ovvia paura e angoscia che provoca ogni fine, significa che forse abbiamo già interiorizzato inconsciamente quella dimensione utilitaristica dell'esistenza che attraversa la nostra storia, con i conseguenti comportamenti che caratterizzano la realtà vissuta nelle nostre giornate.
Lo si voglia o meno, il conflitto morte-vita esiste e ci interroga. Interroga la nostra coscienza e si fa domanda incessante. Rimuovere questa domanda può rappresentare una regressione: il passaggio da un cammino verso un più di coscienza verso la progressiva riduzione del suo ascolto.
Non credo che il Cristo abbia eliminato il conflitto morte-vita, dal momento che egli stesso lo ha vissuto fino alle estreme conseguenze, fisiche, psicologiche, religiose; e tuttavia ci ha dato gli strumenti per superarlo in termini positivi, perché Lui è risorto. Vana sarebbe la nostra fede se non credessimo nella risurrezione del Cristo. Se non credessimo che noi risorgeremo con Lui. E questo vale, secondo la formidabile intuizione di Teilhard de Chardin, non solo per ogni singola creatura, ma per il Cosmo nel suo insieme, per tutta la Terra che la resurrezione del Cristo fa gravitare verso un «più essere», aerso un «più di coscienza», verso la coscienza stessa di un rinnovamento, come l'acqua in ebollizione a un certo momento cambia natura diventando vapore; come un bimbo che, nascendo, muore alla vita vecchia per iniziarne una nuova.

Se dunque riusciamo ad affrancarci dalla caduta verso la dissoluzione, verso una «nientificazione», morire per produrre molto frutto o perdere la vita per ritrovarla significa acquisire una coscienza storica e cosmica della nostra incarnazione nel mondo. Non abbiamo più alibi. Non possiamo più vivere di astrazioni, né rifugiarci nelle ideologie. Dal di dentro di questa civiltà super tecnologizzata in cui stiamo vivendo, dobbiamo dare un giudizio puntuale sulle istituzioni, sulla loro capacità di rispettare le persone, perché è finito il tempo - e continua a ricordarcelo papa Francesco - in cui perfezione cristiana e fuga dal mondo coincidevano. Liberati dall'ossessione della nostra salvezza individuale, dobbiamo camminare verso un'autentica cultura della liberazione che sarà totale e cosmica o non sarà. Utopia? Può essere, ma nel significato opposto di ideologia, e cioè non qualcosa che non potrà mai accadere, bensì qualcosa la cui realizzazione è contrastata dalla forza auto conservatrice e totalizzante delle istituzioni e delle lobby (pensiamo a quella delle armi e della guerra che hanno la capacità e il potere di determinare le politiche governative degli Stati!).
Morire... A che serve?
Suor Maria Teresa dell'Eucaristia (in «Clausura» di Sergio Zavoli) non ha dubbi al riguardo: «Se saprò degnamente macerarmi nel mio solco, quel fiore di grano che nascerà dalla mia morte lo colga una creatura umana. Non importa, per me, chi essa sia, da dove venga, che cosa cerchi... Dio! Ti chiederò soltanto che lo veda per primo un uomo senza speranza!».

Traccia per la revisione di vita
- Che cosa significa per me «seguire Gesù»?
- Qual è il luogo della mia incarnazione?
- Che cosa significano, per me, le parole «vivere» e «morire»?

Luigi Ghia - Direttore di “Famiglia domani”.

 

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