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TESTO Essere pastori...altro che romanticismo!

don Alberto Brignoli  

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IV Domenica di Pasqua (Anno B) (25/04/2021)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Nei primissimi secoli del Cristianesimo, i cristiani - come sappiamo - vivevano in clandestinità: possiamo immaginare quanto fosse difficile identificarsi, riconoscersi tra di loro. Non esistevano, ovviamente, le chiese, i campanili, le parrocchie: tutti gli incontri avvenivano nelle case private, fino a quando furono costretti a nascondersi nei cimiteri (le catacombe) per invocare la protezione di coloro che, prima di loro, avevano testimoniato con il loro sangue la propria fedeltà e il proprio amore al Vangelo di Gesù. Proprio nelle catacombe, si trovano raffigurati molti simboli del Cristianesimo: segni o incisioni rupestri, oppure piccoli affreschi che rappresentavano alcuni elementi della nuova religione. Tra di essi, era quasi impossibile trovare raffigurata la croce (che oggi è considerato il simbolo cristiano per eccellenza), perché era ritenuto disonorante rappresentare Gesù attraverso lo strumento della sua morte, che era ancora allora un patibolo per i malfattori (sarà l'imperatore Costantino a “sdoganare” la croce come simbolo cristiano). Si preferiva rappresentare Gesù con il simbolo del pesce (perché era l'acronimo in greco di Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), oppure con l'immagine umana più antica utilizzata per raffigurare Gesù di Nazareth, vale a dire il Buon Pastore. Sin dall'inizio, quindi, per i cristiani rappresentare Gesù significa identificarlo con il Buon Pastore, così come lui aveva detto di se stesso attraverso il discorso riportato nel capitolo 10 del Vangelo di Giovanni.

A noi, l'immagine del pastore ancor oggi evoca qualcosa di bucolico, quasi di romantico, ovvero il vecchio saggio che vive in una propria dimensione spazio-temporale quasi fuori da ogni contesto reale e che si prende cura del proprio gregge come fossero figli suoi. Ma ai tempi di Gesù, non era così. E non è a caso che Gesù abbia scelto proprio la professione del pastore per descrivere la sua missione. Quella del pastore era una delle tante professioni ritenute dal giudaismo “impure”, ovvero non conformi ai canoni di purità rituale: chi le esercitava, non poteva considerarsi integrato con la comunità, e soprattutto non poteva partecipare alla vita rituale e religiosa del popolo, senza essersi purificato - a volte anche con rituali e sacrifici non indifferenti - da ciò che lo contaminava perché entrato a contatto con lui. Così, il pastore che aveva a che fare con gli animali vivendo notte e giorno a contatto con loro non poteva essere considerato puro; lo stesso dicasi del pescatore, che sempre immerso nel mare (simbolo, lo sappiamo, del male) veniva a contatto con pesci buoni e con pesci cattivi che lo contaminavano; così pure il pubblicano o esattore delle tasse perché maneggiava i soldi e perché approfittava di essi per esercitare usura ed estorsione. Tutte figure di lavoratori presenti, tra l'altro, nel mondo che girava intorno a Gesù.

Lui stesso, dicevamo, si identifica con il pastore, per di più dandosi l'appellativo di “buono”, usando un termine che non riguardava la sua dimensione caratteriale o morale, quanto la bontà della professione che svolgeva. Ora, il discorso del Buon Pastore che Giovanni riporta al capitolo 10 del suo Vangelo, segue immediatamente un episodio che vede Gesù entrare in accesa discussione con le autorità religiose di Gerusalemme. Al capitolo 9, infatti, aveva guarito il cieco nato in giorno di sabato (commettendo quindi un illecito, secondo la Legge): al termine della discussione che ne segue, Gesù bolla con il termine di “guide cieche” i farisei che lo accusano, e senza soluzione di continuità, inizia questo discorso sul Buon Pastore contrapposto ai mercenari, nel quale si capisce in maniera estremamente chiara che il riferimento è alla sua vicenda storica. Il risultato di questo discorso, infatti, è che Gesù deve fuggire da Gerusalemme perché i Giudei avevano già raccolto pietre per lapidarlo, mentre la sua ora non era ancora giunta. Tutto, ad ogni modo, è rimandato di poche settimane, perché al capitolo successivo (Gv 11) viene narrato l'episodio ritenuto “la goccia che fa traboccare il vaso” e che porterà alla decisione da parte del sinedrio di mettere a morte Gesù, ossia la resurrezione di Lazzaro.

Non è quindi un contesto di serenità quello in cui Gesù pronuncia il discorso del Buon Pastore, utilizzando peraltro un'immagine che - oltre a indicare una professione impura - è facilmente riscontrabile anche nell'Antico Testamento come capo di accusa nei confronti delle autorità religiose. Al capitolo 34 del libro del profeta Ezechiele è collocato, infatti, un discorso che tutti i dottori della Legge conoscevano bene, e nel quale il profeta, in nome di Dio, si scaglia contro i cattivi pastori del suo popolo, dediti al loro gregge per puro interesse, pronti solo a sfruttare “latte, carne e lana”, ovvero a dilapidarne le sostanze; da qui, la promessa da parte di Dio di prendersi cura lui, in prima persona, del gregge, suscitando un pastore che, in suo nome, le pascerà conducendole ai pascoli della vita e non della morte. Cosa che, di fatto, trova il suo compimento in Gesù Buon Pastore, attento e dedito al suo popolo, cieco e immerso nell'ombra della morte (v. il cieco nato e Lazzaro) e continuamente sfruttato da coloro che non sono veri pastori, ma solo “mercenari”, gente pagata “a ore”, “a cottimo” per i suoi servizi, indipendentemente dalla dedizione che ci mette nell'aver cura del gregge.

Quello che Gesù rimprovera alle autorità religiose del suo tempo è quella di essere “funzionari del sacro”, perfetti esecutori della Legge e degli obblighi e precetti ad essa connessi, ma altrettanto perfettamente privi di amore verso il popolo. L'atteggiamento verso il gregge non può essere quello del mercenario (mestiere peraltro non impuro secondo la tradizione, perché esercitato a ore e non “ad vitam”), ma quello del pastore, del pastore buono, di una persona ritenuta impura, reietta, non idonea a vivere secondo i canoni e la mentalità distorta di una certa religiosità, eppure capace di dare la vita per il proprio gregge, e non solo per il proprio, ma anche per pecore che non sono del suo ovile e che - sempre per quel tipo di mentalità - andrebbero lasciate allo sbando sui monti, gettate fuori dal recinto, dalla comunità, dalla Chiesa.

In questa Giornata dedicata da oltre mezzo secolo alla preghiera per le Vocazioni, l'auspicio è che chiunque sceglie di dedicare la propria vita al popolo di Dio attraverso una vocazione speciale lo faccia non solo da “sacerdote” nel senso letterale del termine (“colui che dà le cose sacre”), ma anche e soprattutto da buon pastore, amante del gregge che gli è stato affidato.

E adesso, il sottoscritto e tutti i suoi confratelli, è bene che ci ritiriamo in sacro e religioso silenzio a farci un bell'esame di coscienza, perché queste parole di Gesù, oggi, vengono proprio dirette a noi...

 

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