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TESTO Il pastore che vogliamo

padre Gian Franco Scarpitta  

IV Domenica di Pasqua (Anno B) (25/04/2021)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Nella persona di Pietro e Giovanni agisce invisibilmente Gesù risorto. In questo episodio che ha luogo a Gerusalemme, dopo che Pietro ha proferito il suo discorso di Pentecoste ai Giudei, un uomo storpio che è tale sin dalla nascita, come da sua abitudine si fa portare all'entrata del tempio, chiamata Porta Bella e qui comincia a chiedere l'elemosina ai pellegrini e ai viandanti. Si avvicinano all'ingresso del monumento Pietro e Giovanni, che vi entrano per la preghiera del primo pomeriggio. Contrariamente a quanto di solito avviene nei confronti dei mendicanti, che vengono snobbati o trattati con qualche monetina fugace, i due apostoli prendono l'iniziativa essi ed esclamano: "Guarda verso di noi". Vogliono compiere un vero atto d'amore facendo recuperare la salute fisica al paralitico, ma in questo vogliono anche rendersi portatori della presenza silente ma eloquente del Signore Risorto. Lo storpio infatti si aspetta di ricevere l'elemosina, ma ottiene molto di più nel nome di quel Gesù che i Giudei avevano crocifisso e che il Padre aveva risuscitato. Guarisce immediatamente e cammina da solo saltando e lodando Dio sotto gli occhi inebetiti degli astanti. Un prodigio che fa ricordare i miracoli di guarigione compiuti da Gesù prima della sua passione, perché di fatto è simile ai segni prodigiosi che questi realizzava ancor prima di congedarsi dai suoi. E in effetti è proprio lo stesso Signore a realizzarlo, sia pure sotto forme non più visibili.

Adesso ogni riferimento è esplicito e diretto e non servono più sottili ragionamenti per affermare questa verità: Cristo è risorto e opera miracoli e guarigioni, ora come allora. E proprio come prima avveniva, anche adesso attrae a sé turbe di popolo che stravedono per lui. Si sentono interpellati dalle parole di Pietro e vogliono lasciarsi coinvolgere dall'Autore della vita che avevano appeso ad un patibolo (At 3, 13 - 14). Gesù stesso lo aveva affermato: ""Quando sarò attirato da terra, attirerò tutti a me"(Gv 12, 32) e la risurrezione sortisce tutti quegli effetti di cui è capace solo l'amore di Dio per l'uomo. Essa rinnova i prodigi e attualizza, rendendola sempre più appropriata e avvincente, la Parola di salvezza. Protrae il mistero dell'incarnazione attualizzandolo e dilatandolo fra gli uomini di tutti i tempi e contemporaneamente segna il trionfo della vita sul peccato e per ciò stesso sulla morte a anche sulla malattia Cristo risorto continua a mostrare il suo potere di condivisione e di redenzione. Gesù agisce invisibilmente e nel mistero di una presenza indicibile, però agisce. E' in forza dello Spirito Santo che egli mostra la sua incidenza per mezzo del ministero degli apostoli e nell'opera di tutta la Chiesa visibile.

In una attività agricola le pecore non sono mai animali selvatici abbandonati a se stessi. Finché c'è qualcuno che le guidi e che le orienti, non si disperderanno per i campi o per le zolle. Ascoltano la voce del pastore che a sua volta non le conduce in qualsiasi luogo né tantomeno in terreni aridi, incolti o peggio ancora pericolosi: le raccoglie in branco e le tiene unite finché non le ha condotte su pascoli ubertosi da lui individuati dove esse possono nutrirsi. E mentre traggono alimento, il pastore le osserva, vigila su di esse e pone immediatamente rimedio casomai qualcuna si allontana dal gruppo. Poi le conduce, sempre guidandole passo dopo passo, al recinto, dove trovano rifugio e sicurezza. Fintanto che le pecore lo seguono, non corrono mai il rischio di perdersi nei luoghi impervi o fra le zolle aspre del terreno.

Se Gesù paragona se stesso al pastore, se anzi egli stesso si definisce Pastore supremo è perché considera che noi alla pari delle pecore, abbiamo necessità di essere sorretti e guidati. L'uomo infatti brancola nel buio senza essere guidato da Dio e inconsapevolmente perde se stesso nella molteplicità delle illusioni e delle chimere propinategli dal successo, dalla propaganda, dalle false sicurezze.

Tante volte ci autoesaltiamo e poniamo fede solamente nelle nostre limitate capacità e nelle nostre disillusioni, sostituendo non di rado Dio con altre molteplici proposte. Ma l'uomo senza Dio è inconsapevolmente una pecorella smarrita che si illude di trovare pascolo o che si nutre di erbe velenose. La mentalità del nostro secolo è quella di non volerci considerare pecore al seguito del Pastore che è Dio fatto uomo; preferiamo piuttosto essere pastori noi ciascuno di se stesso, organizzare pascoli preferenziali secondo le nostre scelte. A tal proposito, lo scorso anno, durante un incontro per operatori pastorali organizzato dalla nostra Diocesi con il miscredente prof. Cacciari, questi nel suo intervento osservò: “Lamentate spesso di essere pecore senza pastore; ma voi volete davvero un pastore? Siete in grado di accettarlo sinceramente, senza riserve?” Tante volte infatti prevale il nostro orgoglio, la presunzione e non di rado si trovano pretesti per rifiutare la figura di chi vuole orientarci o condurci verso ambiti differenti dai nostri. Mentre rinnoviamo la nostra adesione al Pastore, in realtà il Pastore stesso è un compagno scomodo.

Cristo ha sconfitto la morte per rivelarsi come unico pastore in grado di soddisfare le attese dell'uomo perché come Dio e come Uomo conosce la nostra condizione, scruta a fondo il nostro cuore e ha già individuato quali siano i pascoli a noi più congeniali. Come pure Gesù sa bene quale erba dobbiamo brucare per non incappare nei veleni.

Ma soprattutto Gesù può qualificarsi Pastore perché ha condiviso la nostra situazione di pecorelle smarrite egli stesso, recando sulle sue spalle il peso della debolezza e dell'ignominia, restando asservito e imparando l'obbedienza dalle cose che patì (Eb 5,8); quindi è in grado di compatire, di comprendere e di trovare il sistema adeguato per accompagnare le sue pecorelle. Soprattutto perché egli stesso ha accettato di essere pecora, anzi Agnello innocente per il nostro riscatto. Gesù è pastore non perché esercita un dominio incontrastato, ma perché condivide ogni cosa con le sue pecorelle, avendo sofferto, patito ed essendosi umiliato non diversamente da esse e anzi essendo stato egli vittima in quanto Agnello. Ci guida e ci sollecita verso liti forse a noi sconosciuti ma senz'altro appropriati alle nostre singolari esigenze e finalizzati al vero bene e non al nostro agio. La sollecitudine del pastore corrisponde ai bisogni del gregge.

 

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