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TESTO Protetti con il «donare» avendo il «nome di Gesù»

diac. Vito Calella

IV Domenica di Pasqua (Anno B) (25/04/2021)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 10,11-18

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Per proteggerci dal virus covid 19 è in atto la campagna globale di vaccinazioni. Per salvare la vita e l'economia bisogna accelerare il processo di “immunità di gregge” di ogni popolazione nazionale. Il linguaggio corrente ci paragona ad un gregge di pecore, gregge assembrato e vagante in questa pandemia disastrosa. Siamo indotti a confidare unicamente nell'efficacia del sapere scientifico per ottenere la “salvezza” delle nostre esistenze. Il “pastore” che sembra poter risolvere i nostri problemi è divenuto quel pool internazionale di ricercatori che, a servizio degli interessi economici delle multinazionali farmaceutiche, ha prodotto i vari tipi di vaccino. Ad esso va associato il comitato tecnico-scientifico, istituito per orientare le scelte dell'équipe di governo. La scienza diventa attività vincente quando gli esperti lavorano uniti e condividono i risultati delle loro ricerche, mettendo al centro il rispetto delle creature e non l'idolatria del profitto economico.

È in questo contesto che la liturgia della Parola ripropone per noi cristiani, nel tempo di pasqua, l'annuncio evangelico su Gesù «pastore bello» del suo amato gregge.

Nell'attuale contesto tecnocratico ci possiamo chiedere che cosa abbia da offrire il Cristo risuscitato, presentendosi oggi all'umanità come il «buon pastore, il pastore bello».
Proteggersi con l'«avere».

L'essere umano, che vuole procedere autonomamente senza l'ipotesi “Dio” nella sua esistenza cronometrata e frenetica, confidando unicamente nel potere del sapere tecnico-scientifico, cerca protezione e “salvezza” puntando sull'«avere»: «avere» vaccini, «avere» risorse economiche assicurative per gli imprevisti futuri, «avere» garanzie di sicurezza, «avere» diritti, «avere» sussidi e ristori dallo stato, «avere» scorte alimentari in situazioni di emergenza, «avere» libertà di uscire e divertirsi, «avere» le spalle coperte giuridicamente. «Proteggersi» diventa sinonimo di «essere salvi avendo», con il rischio di non riuscire più a riconoscere nella storia e nella vita l'iniziativa e la presenza divina. La “salvezza” è ridotta ad una esperienza immediata nel qui ed ora della vita, senza slanci contemplativi al fine ultimo che ci aspetta dopo la soglia della nostra morte fisica.
«Avere il nome di Gesù».

La parola di Dio di questa domenica ci rivela un «avere» essenziale, un «avere» che fa la differenza, da custodire con cura per essere pronti a donarlo a chiunque incontriamo, soprattutto a chi vive di “perdite” più grosse delle nostre: «l'avere il nome di Gesù».

Pietro e Giovanni erano andati al tempio di Gerusalemme «per la preghiera delle tre del pomeriggio» (At 3,1). Un uomo storpio fin dalla nascita chiedeva l'elemosina alla porta del tempio, e la implorava anche ai due apostoli. Pietro gli disse: «Non possiedo né argento, né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!» (At 3,6). Nella sua auto-difesa davanti ai capi del popolo, che li avevano arrestati a causa di quel prodigio (abbiamo ascoltato oggi), Pietro disse: «Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato» (At 4,10).

Ciascuno di noi si può identificare in quello storpio, soprattutto quando le circostanze della vita ci immobilizzano, ci rendono paralizzati e incapaci di muovere nuovi passi in avanti. Può essere capitato: un lutto difficile da accettare; una separazione che rimane una ferita aperta; una depressione che paralizza le nostre energie più belle e positive; una malattia che ci fa sperimentare tutta la nostra fragilità e vulnerabilità. Pietro dona l'unica cosa che possiede come essenziale: il«nome di Gesù». Il «nome di Gesù» ha il potere di far alzare, di far mettere “in cammino” chi giace storpiato a causa della sua condizione di fragilità.

Il nome «Gesù» significa «Dio salva». «Avere il nome di Gesù» per pronunciarlo non è certo una parola magica che risolve in un batter d'occhio tutte le situazioni complicate. Ogni miracolo raccontato nella Bibbia va visto come un segno indicativo di un messaggio di speranza e di vittoria del bene sul male. È doveroso «avere» il vaccino, «avere» il necessario per vivere dignitosamente, ma diventa essenziale «avere il nome di Gesù», liberi da un suo uso magico.

«Avere il nome di Gesù» significa scegliere di invocare incessantemente il suo nome nella nostra preghiera individuale, silenziosa, perché questo è il modo con cui possiamo fortificare in ciascuno di noi sia la fede nella sua risurrezione, sia la confidenza nel dono dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori dal Cristo risuscitato, fin dal giorno del nostro concepimento.

«Avere il nome di Gesù» significa coltivare ogni giorno la preghiera del cuore, riuscendo a ritagliare spazio e tempo sacro al nostro correre tra molteplici cornici che riempiono la quotidianità.

Possiamo continuare a vivere affranti da situazioni difficili, da una malattia, dal peso di una perdita incolmabile, ma l'invocazione incessante del nome di Gesù ci fa stare nella stessa situazione con uno sguardo nuovo, con lo sguardo del percepirci, del sentirci, del vederci in comunione e mai più isolati o relegati ad un individualismo divisivo ed escludente.

L'invocazione del nome di Gesù ci apre all'esperienza della filiazione.

Lo «sguardo del percepirci, sentirci, vederci in comunione» corrisponde alla felice esperienza dell'universale filiazione, così come ci è stata descritta dall'apostolo Giovanni: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!»(Gv 3,1a).

Invocare incessantemente il nome di Gesù, nella nostra preghiera quotidiana individuale e solitaria, è scegliere di «rifugiarsi nel Signore, piuttosto che confidare nell'uomo e nei potenti», che si affidano alle sicurezze dell'«avere» solo per se stessi (Sal 118,8-9).

Invocare incessantemente il nome di Gesù ravviva in noi il dono gratuito dello Spirito Santo che ci fa contemplare la bellezza e la tenerezza della paternità divina, facendoci ripetere commossi: «Abbà, Padre» (Rm 8,15), anche nelle situazioni di “non amore”, di separazione e di grande prova.

Il vaccino più efficace di tutta la nostra avventura esistenziale in questo mondo è «il sentirsi amati e mai abbandonati dal Padre unito al Figlio, nello Spirito Santo».
Gesù in comunione con il Padre.

Questa fu l'esperienza stessa di Gesù. Egli visse la sua avventura terrena da Figlio amato, non da individuo solitario, ma da “consegnato” alla volontà del Padre: «Il Padre conosce me ed io conosco il Padre» (Gv 10,15b). L'essere Figlio amato dal Padre e il vivere costantemente in comunione con il Padre fu la vera garanzia di protezione di Gesù, quando assunse in pieno la nostra condizione umana. Della sua esperienza di comunione con il Padre, cioè di questa unità d'amore gratuito, Gesù, guidato e sostenuto dallo Spirito Santo, non ha tenuto nulla per se stesso, ma si è totalmente donato alla relazione con tutti noi, uomini e donne di questo mondo, così come il «buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui» (Gv 10,15a).

L'umanità che vuole bastare a se stessa cerca sempre di proteggersi col principio dell'«avere».

Gesù si è protetto con il «donare tutto se stesso» per noi e per la nostra salvezza, come fa il pastore bello che «offre la vita per le pecore» (Gv 10, 15d).

In Gesù non contempliamo il proteggersi con l'«avere», ma il proteggersi col «donare».

Dopo aver veramente donato tutto se stesso per noi con la sua morte di croce, consegnato fedelmente al Padre nel nulla della morte, il sigillo della sua protezione o salvezza è stata la ripresa eterna della sua vita, cioè la sua risurrezione «Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,18).
Protetti con il «donare».

Chiediamo a Gesù buon pastore di vivere la sua stessa esperienza. Più che rifugiarci sulla sicurezza dell'«avere», scegliamo l'avventura del donarci come Gesù «pastore bello».

Con la forza e la luce dello Spirito Santo, presente in ciascuno di noi, proteggiamoci in questo tempo difficile sentendoci gioiosamente «pietre di scarto» con il disseminare la nostra giornata di gesti gratuiti non riconosciuti, non retribuiti, non valorizzati dagli altri. Facciamolo guardando a Gesù che si è protetto donando tutto se stesso per noi e per la nostra salvezza, ma consapevoli che il suo essere gettato alla morte di croce come «pietra di scarto» lo ha reso «pietra angolare» (Sal 118,22).

 

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