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TESTO Una preghiera da una stuoia di cocco

don Angelo Casati  

Ultima domenica dopo l'Epifania (Anno B) (14/02/2021)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

"Aveva appena finito di dire un'altra parabola". Quella era per invitare a non desistere mai nel pregare, fin quasi a infastidire Dio. Già, ma Dio quando lo si infastidisce? Anche in questa parabola si parla di preghiera: la preghiera del fariseo, la preghiera del pubblicano. Ma la parabola va oltre. Perché va a mettere i riflettori su atteggiamenti dello spirito: la preghiera come specchio di altro. Infatti nel testo è detto per chi Gesù inventa la parabola: "per alcuni che avevano la presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri".

E dà ai primi, nella parabola, un nome: "fariseo", e agli altri, che non presumono e non disprezzano, il nome di "pubblicano". Notate, Gesù non sta parlando al vuoto: i farisei li aveva davanti agli occhi. Pensate l'effetto delle parole della parabola su di loro. Erano venuti per porgli domande sulla venuta del regno di Dio: quando? Si sentono implicati in ben altro. Leggo la parabola e ho la percezione che devo guardarmi da un passo falso in cui chissà quante volte sono incorso, quello di dividere nettamente il mondo in due: i farisei da una parte, i pubblicani dall'altra. E io a giudicare e condannare d'istinto il fariseo. E non mi accorgo che, con la disinvoltura con cui lo disprezzo, sono io a passare dalla parte del fariseo. E subito passa nel mio cielo una domanda: non sarà che a volte siamo pubblicani, ma a volte anche farisei? A volte farisei.

Di cui il testo dice: "avevano la presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri". Quel modo di pregare del fariseo non era che la conseguenza di come era dentro, della sua supponenza di essere giusto. Conseguenza, questa, a sua volta, di una religione intesa come scambio di favori: "Tu mi hai dato, io ti ho dato", tradimento della vera religione. Nel passo del rotolo di Isaia che abbiamo ascoltato, Dio, parlando del rapporto con il suo popolo - con noi - mette in campo una parola che è di un tenerezza infinita, se alle parole diamo ancora un peso. Dice: "Tuo sposo è il tuo creatore". Sposo. E poi si parla di un Dio che, dopo un istante di sconcerto, ti raccoglie con amore immenso: "Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia".

Vorrei chiedervi che cosa trovate di tutto questo, della parola "sposo", nella preghiera del fariseo. Ci si sente giusti per le prestazioni. Come se in un matrimonio si rivendicasse di essere a posto perché ci si è dati cose, per le prestazioni, e non per un'alleanza di pensieri, di sentimenti, di tenerezza, di complicità. Ebbene io, se penso di essere a posto con Dio o con gli altri per prestazioni, vuote di intimità, appartengo alla famiglia del fariseo. Così come appartengo alla famiglia del fariseo, se mio è l'atteggiamento di coloro che "disprezzano tutti gli altri", di coloro che - tradotto in modo forse più incsivo - "non tengono in nessuna considerazione tutti gli altri".

Come se il mio io ipertrofico li cancellasse dall'orizzonte, o li sfocasse. Nella parabola l'io debordante del fariseo lo vedi occupare parole e postura. Si autocelebra con uno strapieno di parole, quante parole: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo". E, con le parole, la postura, dominante: Gesù la coglie come non fosse un dettaglio: "Stando in piedi". L'uomo definito in una postura: "Stando in piedi". In netta dissonanza con le parole e la postura del pubblicano. Un grumo, il suo, di parole, non ostentate, quasi nascoste in un soffio, che solo un Dio, che ascolta anche il pianto soffocato di un bambino nel deserto, sa udire, fino a sentirsene intenerire le viscere.

Eccole: "O Dio, abbi pietà di me peccatore". Parole piccole, sacre. Che ritornano insistenti nella nostra liturgia ambrosiana, con il suono del testo greco: "Kyrie eleison". Vi confesso che ci sono momenti in cui sogno che potessero essere le mie ultime parole. Perché Gesù ha detto che il pubblicano uscì "giustificato". Uscire dalla mia vita giustificato. Questo soffio di parole. "Abbi pietà di me peccatore", con le altre, anche quelle un soffio, quelle del ladro che dalla croce rubò il paradiso: "Ricordati di me, Signore, nel tuo regno". "Abbi pietà di me peccatore": parole in perfetta, evidente, consonanza con la postura: "A distanza, si batteva il petto, non osava alzare gli occhi".

Pensate se non è proprio vero che è questa la terra da cui puoi essere ascoltato da Dio, che è il Dio difensore del povero, della vedova, dello straniero. Non è la presunta pienezza, non l'arroganza, non lo stare in alto che ci fa ascoltati da Dio, ma un umile sentire. E non solo da Dio, anche dagli umani. La terra del dialogo nasce quando gli altri pei noi sono qualcosa, sacri, quando non siamo pieni di noi stessi. Allora c'è posto per loro. Voi mi capite, sono andato mescolando pensieri su posture del corpo e dell'anima. Che mi hanno richiamato due brevi racconti con cui chiudo.

Uno appartiene al Diario di una ragazza olandese, giustiziata dai nazisti ad Auschwitz nel novembre 1943, Etty Hillesum. Ecco una pagina del suo diario: "Oggi pomeriggio mi sono ritrovata d'un tratto in ginocchio sulla stuoia di cocco marrone, nel bagno, la testa nascosta nell'accappatoio, che pendeva dalla sedia di vimini rotta. Non riesco proprio a inginocchiarmi bene, c'è una sorta di imbarazzo in me. Perché? Forse a causa della parte critica, razionale e atea che pure mi appartiene. Tuttavia sento, di tanto in tanto, un forte desiderio di inginocchiarmi con le mani sul viso, per trovare pace e per ascoltare la fonte nascosta in me".

Il secondo racconto è di questi giorni, è di un amico di alcuni di noi. Un cuore pensante come Etty, senza appartenenze confessionali. Ci scriveva: "In questi giorni a me accade una cosa che la mia piccola, piccolissima mente non avrebbe mai potuto neanche minimamente immaginare. Che cosa? Ogni mattina e ogni pomeriggio, per poter stare vicino a mia madre (100 anni) e farla molto, molto contenta, recito con lei al telefono le preghiere che mi faceva recitare da bambino: Ave Maria, Padre Nostro, Salve Regina, Credo, Angelo Custode. Lei ricorda tutto e io sorrido a sentirla. Per mia madre, una botta di vita. E in fondo anche per me".

 

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