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TESTO La restituzione del dono

diac. Vito Calella

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XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (18/10/2020)

Vangelo: Mt 22,15-21 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 22,15-21

In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Il contesto di tensione e la questione del tributo a Cesare.

Uno dei tributi più scomodi da dover pagare al tempo di Gesù era la tassa pro capite imposta dai romani dopo l'occupazione della Palestina nel 6 d.C. Ogni abitante della Giudea, della Samaria e dell'Idumea, uomini, donne, liberi e schiavi, dai dodici anni per le donne e dai quattordici anni per gli uomini, fino al limite di sessantacinque anni, doveva pagare all'imperatore romano un denaro di tributo all'anno, che consisteva nel valore salariale di una giornata di lavoro. Si doveva pagare con una apposita moneta di argento, coniata dai romani, che al tempo di Gesù portava impressa l'immagine di Tiberio Cesare, imperatore di Roma dal 14 al 37 d.C. IN quella moneta, oltre all'immagine del volto dell'imperatore, si poteva leggere la scritta in latino che, tradotta, diceva: «Tiberio Cesare, augusto figlio del Divino Augusto, sommo sacerdote». Era risaputo che i romani promuovevano il culto dell'imperatore, il quale era equiparato ad una divinità in terra. Per i farisei e i pii giudei toccare e portare con sé quel denaro di argento, con l'immagine dell'imperatore e la scritta che lo divinizzava, era peccare di idolatria. I farisei tolleravano a fatica l'occupazione romana e il pagamento del tributo era una costrizione dura da accettare. Bastava una affermazione di Gesù favorevole al pagamento di quella tassa per screditarlo di fronte alla gente, che non sopportava fare quel pagamento. Gli erodiani invece erano i fedeli sostenitori del re Erode Antipa, il quale, per mantenersi al potere, doveva mettersi a servizio dei dominatori. Essi aiutavano i romani a riscuotere le tasse senza che vi fossero rivolte ed erano fedeli informatori su possibili sovversivi. È chiaro che bastava una affermazione di Gesù contro il pagamento di quel tributo per avere un capo di accusa e condannarlo come uno dei vari ribelli al regime dell'impero. L'evangelista Luca ricorda che uno delle false accuse mosse contro Gesù di fronte a Pilato riguardava proprio questa tassa: «Quest'uomo l'abbiamo trovato mentre sobillava la nostra gente, proibiva di pagare i tributi a Cesare, ed affermava di essere il Cristo, re» (Lc 23,2b).

L'incontro di Gesù con i farisei e con gli erodiani è dunque carico di tensione, nonostante le loro iniziali parole di adulazione rivolte a Gesù, rivestite di ipocrisia.
Attenti all'ipocrisia, segno della malizia del cuore!

Gesù non è stupido e smaschera le loro cattive intenzioni. Se era stato elogiato per essere «veritiero, insegnare la via di Dio secondo verità e non avere soggezione di alcuno» (Mt 22,16b) lo fu innanzitutto avendo il coraggio di rivelare apertamente l'ipocrisia e la malizia del loro cuore. Rimbalza per noi oggi l'invito a esaminare la qualità del nostro rapporto con Gesù. La malizia del cuore può intaccare il cristiano battezzato, cresimato, che ha già ricevuto il dono del corpo e sangue di Cristo, ma vive schiavo di una religiosità farisaica, aggrappandosi a principi di fede e di morale, pretendendo di essere giusto con il merito della sua buona volontà e del potere della sua sapienza, giudicando dall'alto al basso gli altri senza rispetto e senza misericordia. La malizia del cuore può annidarsi anche in quel cristiano che superficialmente conosce Gesù Cristo, ma dentro di sé è complice del sistema che adora il denaro e confida negli imperatori di turno che oggi sono i detentori del sistema finanziario ed economico promettenti il falso benessere basato sull'avere, sul piacere illusorio e momentaneo del consumo. La vita quotidiana diventa la schiavitù del saziare gli innumerevoli bisogni sollecitati da una società che ha ridotto l'uomo a un misero consumatore inconsapevole del dono delle cose che può possedere con la forza travolgente del denaro. Se Gesù Cristo non sta al centro del nostro cuore, perché è occupato dal nostro “Io” o dal “dio denaro”, è chiaro che Egli può essere ancora condannato a morire dall'orizzonte della nostra esistenza.
Interroghiamo il denaro che possediamo!

La richiesta di Gesù di mostrare a lui e ai suoi interlocutori il denaro d'argento del tributo, è una mossa di grande sapienza, perché costringe a fermarsi, a riflettere su ciò che succede nella vita, senza lasciarsi dominare dal demonio dell'autosufficienza e dall'idolatria per le cose materiali e per i potenti della terra, che si concentra nell' «avidità del denaro, radice di tutti i mali» (1Tm 6,10a). Facciamolo anche noi questo gesto di prendere in mano una banconota di valore oppure la nostra carta di credito Interroghiamo il denaro o la sua riserva che sta davanti ai nostri occhi! Chiediamogli: «Che cosa sei per me? Come sei usato nel mondo?»

Se lo teniamo custodito nel portafoglio, usandolo in fretta nell'ora di comprare, non ci rendiamo conto di quanto sia facile legare il nostro cuore a ciò che non è Dio.

«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare» (Mt 22,21a).

La frase ha un duplice significato dipendendo dall'uso che se ne fa di quel denaro che si ha davanti agli occhi.

Se è destinato a mantenere un sistema ingiusto e iniquo di potere e di oppressione, finalizzato a far arricchire soltanto chi sta in alto ed ha le redini della politica e dell'economia solo a proprio tornaconto, senza la preoccupazione per i più poveri e per una destinazione universale dei beni, allora quel «rendere» può voler dire «prendere le distanze di tutto ciò che appartiene a Cesare». «Cesare» rappresenta l'uomo potente che pretende di essere Dio e si illude della sua potenza, difensore di un sistema oppressore destinato prima o poi a crollare. È un invito coraggioso alla resistenza pacifica, a non diventare complici di un sistema che finanzia le ingiustizie, la corsa agli armamenti, gli investimenti nei giochi finanziari. È un invito a fare buon uso del denaro che si ha, frutto del proprio duro lavoro. Tiberio Cesare, imperatore di Roma al tempo di Gesù, è oggi per noi figura simbolica di chi opprime e vuole dominare su tutti illudendosi di essere come Dio: verso questo tipo di governante è giusto prendere le distanze.

Ma se il denaro che tu dai per pagare una tassa te lo ritrovi applicato ad un sistema che cerca di garantire a tutti la salute, l'educazione, le infrastrutture, i servizi essenziali per una buona convivenza sociale nel rispetto degli ultimi, allora quel «rendere a Cesare» può voler dire «contribuire al dono ricevuto». C'è un altro re, oggi, presentato dalla Parola di Dio. È il re di Persia, Ciro, esaltato dal profeta Isaia (il secondo Isaia vissuto nell'esilio di Babilonia). È oggi per noi figura simbolica di chi governa con giustizia ed è, magari anche senza saperlo, un «eletto di Dio» (Is 45,1) perché le sue scelte ricadono a favore di poveri e degli oppressi. Ciro, re di Persia, sconfisse i Babilonesi e proclamò un editto che permetteva ai popoli resi schiavi dai Caldei di poter ritornare là da dove erano stati deportati. Contribuì di fatto a porre fine all'esilio di Babilonia di Israele. Tra Tiberio Cesare e Ciro c'è una differenza. L'uno si illude di essere Dio, confidando nella forza del sistema iniquo che ha contribuito a costruire per proteggere gli interessi propri e dei suoi fedelissimi. L'altro sta al suo giusto posto, perché «Ciro è Ciro, l'uomo è uomo, Dio è Dio», Ciro è semplicemente un re terreno, Dio è più grande di lui e di qualsiasi potente che vediamo apparire sulla scena della storia umana. Lo abbiamo ascoltato: «Io sono il Signore e non c'è alcun altro, fuori di me non c'è Dio; [...] sappiano dall'oriente e dall'occidente che non c'è nulla fuori di me.Io sono il Signore, non ce n'è altri» (Is 45, 5.6b).
«Rendete a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21b).

L'uso che tutti noi, potenti governanti e umili cittadini, possiamo fare del denaro dipende dalla comprensione della seconda parte della risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani: «Rendete a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21b). Se siamo invitati dal Cristo risuscitato a restituire al Padre ciò che gli appartiene, vuol dire che siamo continuamente circondati dall'evidenza di una eccedenza di dono che riceviamo gratuitamente. Tutto è dono del Padre: la vita, le persone con le quali intessiamo le nostre relazioni quotidiane più significative, la natura, la salute, i beni materiali che possediamo, il lavoro che ci permette una vita buona, anche i soldi che ci siamo guadagnati lavorando o che ci sono stati dati come provvidenza. Il «rendere a Dio quel che è di Dio» non è però una questione di scambio commerciale come avviene con il sistema fiscale dei tributi da pagare: tu dai e lo Stato, le Istituzioni ti devono garantire i servizi essenziali. Il Padre unito al Figlio nello Spirito Santo ci ha donato tutto, fino al punto di donare se stesso per noi e per la nostra salvezza attraverso il suo Figlio venuto in mezzo a noi, morto e risuscitato per ristabilire la comunione con Lui e attraverso la forza della gratuità del suo amore presente nel tempio vivo della nostra corporeità vivente, pensante, cosciente. Di fronte a questa eccedenza di dono, il Padre ci chiede di restituire non a Lui, ma al nostro prossimo «con l'operosità della nostra fede, con la fatica della nostra carità e con la fermezza della nostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 1,3). Così facendo l'uso del nostro denaro sarà per la gloria del Padre, cioè solo a servizio dell'uomo.

 

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