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TESTO Non ce lo stacchiamo dagli occhi

don Angelo Casati  

III domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno A) (13/09/2020)

Vangelo: Lc 9,18-22 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 9,18-22

18Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». 19Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 20Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». 21Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno.

22«Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».

Le parole sono importanti. Penso ai muti e alla loro fatica di affacciarsi. Di affacciarsi all'altro. Per questo Gesù faceva parlare i muti. Le parole. Parole scritte, parole parlate, parole che svelano e parole che mascherano, parole che accendono un viso e parole che lo spengono, parole imponenti o parole sottovoce. Ricordo una bambina undici anni, che, anni fa, un giorno mi disse: "don Angelo, e adesso chi mi parlerà sottovoce di Dio?". Folgorato. Chi mi parlerà sottovoce di Dio? La parole. E anche il rischio delle troppe parole. E di quelle che non dicono se non il nulla. Vuote.

A volte denunciano un vuoto di pensiero e di cuore. Sento un pericolo, e nello stesso tempo l'urgenza che le parole siano pesate e non siano prostituite. Cioè violate da un pensiero che le offende e le stravolge. Quando diciamo la parola "Dio", la parola "Cristo", la parola "uomo", " donna", "cristiano", "cittadino"... e così via, che immagini diamo? Sarebbero parole abusate, se ce ne appropriassimo per dire altro da quello che vorrebbero significare. Anche Gesù - e ne parleremo - chiede parole che dicano o si avvicinino alla sua identità: "E voi chi dite che io sia?".

E dunque la bellezza di una parola e il pericolo, che la abita, di essere equivocata. Nel desiderio di chiarirmi, vorrei oggi iniziare dal responsorio del salmo 131, che insieme abbiamo pregato. Ricordate? "Grandi cose ha fatto il Signore per noi". La mia domanda è sulla parola "per noi". Può essere letta come un sussulto di stupore per le grandi opere di Dio di cui siamo segno, per cui ringraziare. O il "per noi", potrebbe essere letto come una restrizione, in senso esclusivo: "per noi e non per gli altri". La parola "noi" dunque va dilatata, il "noi", per natura è dilatato. A volte attende di essere dilatato.

E penso al brano di Isaia che è commovente nel parlare di un Dio che alza il suo vessillo, "raccoglierà gli espulsi d'Israele; radunerà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della terra". Ecco, voi mi capite, la bellezza dei verbi raccogliere e radunare riferiti a Dio. Ma sul momento Isaia sembra restringere i verbi al solo Israele. E io penso che Dio ci stia stretto, come in un vestito stretto, perché la sua passione è una riunione universale, una riunione che canta la fantasia dei suoi figli, nemmeno uno uguale all'altro, incontenibile immaginazione di un padre che mai si spingerebbe a sognare figli di un solo stampo. E allora, quanto è bello pregare dando universalità al noi: "Grandi cose ha fatto il Signore per noi".

E vengo al vangelo dove Gesù - vi dicevo - chiede ai discepoli parole sulla sua identità. Ha pregato, come quando si trova alla vigilia di un momento importante, ma delicato. Li aveva mandati in missione. Le folle, cui erano stati mandati, che cosa avevano capito? Fondamentalmente che Gesù era un profeta. Ma basta? E' tutto qui, in questa parola, la sua identità? E loro che cosa dicono di lui? Che cosa comunicheranno di lui? "Voi chi dite che io sia?". Per voi c'è dell'altro, dell'oltre? Per il gruppo risponde Pietro: "Tu sei il Cristo". Sei il Messia.

Non è forse vero che anche noi diciamo "Gesù Cristo", ma a volte così veloce, quasi Cristo fosse un cognome e non invece: Gesù il Cristo, l'Unto di Dio, il Messia, uno pieno dello spirito di Dio che più di così non si può, la pienezza. Ma, vedete, anche la parola Messia, può prestarsi a un equivoco, allora Gesù interviene, come dicesse: "Se diventa occasione di un fraintendimento, la si taccia": "Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. "Il Figlio dell'uomo - disse - deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno". Voi avete notato che Gesù non riprende la parola "Cristo" di Pietro. "il Figlio dell'uomo" dice. E gli sposa i verbi della passione, morte, risurrezione.

Vedete, nell'aria c'era l'attesa vibrante di un Messia, ma di un Messia trionfante, esaltato, osannato, nei segni della potenza di un aristocrazia del potere. No, il "Figlio dell'uomo", uno che condivide sino in fondo la condizione umana, uno che ha passione non per il potere ma per donne e uomini, uno che si batte per le dignità depredate di uomini e donne, contro una religione dei sottomessi, per una regno dei liberi. Ebbene vorrei dirvi che anche la parola "croce" ha subito fraintendimento, come se Gesù cercasse la croce.

La croce fu la conseguenza della sua passione per noi. Nel "credo" diciamo: "Fu crocifisso per noi", per difendere noi. Non la croce per la croce. Si mise di mezzo, non rimase a guardare. Quando andarono a catturarlo disse: "Prendete me, ma lasciate liberi loro". Non si tirò indietro, non esitò a mettersi di mezzo, a costo di vita. Ci chiede di fare altrettanto, avremmo trovato l'invito, se il nostro brano non fosse stato tagliato. Ora concludo parlando al plurale, parlo anche per voi, e so di non sbagliare.

Sono passati giorni e non riusciamo proprio a staccarci dagli occhi, dalle pareti dell'anima, quanto è accaduto tra sabato e domenica, a Colleferro, alla periferia di Roma: hanno ammazzato a calci in viso un ragazzo di 21 anni, Willy Monteiro Duarte. Un ragazzo tranquillo, che imparava a fare il cuoco, lavorava in un ristorante, giocava a calcio. Era intervenuto a far da paciere in una rissa per proteggere un amico. L'hanno ammazzato a botte mentre era già a terra. Noi giustamente chiediamo giustizia e ci vergogniamo, ci indigniamo per la brutalità, per la bestialità. Penso anche che, usando la parola "bestialità", offendiamo gli animali. Ma si tratta purtroppo anche di una cultura.

E' raccapricciante: alla brutalità del gesto uniamo le parole dei genitori: "In fin dei conti cosa hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". Vedete è una cultura che non sa dare nome di uomo a un uomo, nome di donna a una donna: penso alle ragazze abusate, stuprate in gruppo ovunque in questi giorni. Se penso alla barbarie mi si inumidiscono gli occhi. Ma vorrei dirvi che mi sembra importante che l'ultima immagine non sia la barbarie, ultima sia il gesto di Willy colpito, malmenato, calpestato per difendere da soprusi un amico.

Mi parla anche dell'identità di Gesù. Morto per difendere. Vorrei che rimanesse nei nostri occhi e nei racconti più lui che i suoi assassini, la cultura dell'esporsi più che la cultura dell'io arrogante.

Io non so chi glielo ha insegnato. Ma ha fatto come Gesù.

 

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