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TESTO Quante volte dovrò perdonare?

mons. Roberto Brunelli

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (13/09/2020)

Vangelo: Mt 18,21-35 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 18,21-35

In quel tempo, 21Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

"Il rancore e l'ira sono un abominio. Perdona l'offesa del tuo prossimo e allora ti saranno rimessi i peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore? Egli non ha misericordia per l'uomo suo simile, e osa pregare per i propri peccati?" Era scritto così già nell'Antico Testamento, come ricorda la prima lettura di oggi (Siràcide 27,30-28,7); Gesù riprende questi concetti con la parabola (Matteo 18,21-35) del re che generosamente condona a un debitore che non ha di che pagare, l'enorme somma di diecimila talenti, ma poi lo punisce quando viene a sapere che quel suo suddito non ha voluto condonare a un suo compagno un debito di pochi spiccioli. Il re della parabola è Dio, i debiti degli uomini verso di lui sono i peccati, che egli perdona per quanto grandi possano essere, a condizione che gli uomini perdonino ai loro simili i torti da loro ricevuti: torti che a noi magari paiono montagne, ma a confronto di quelli da noi fatti a Dio, riconosciamolo, sono sassolini.


Questione accessoria: quanto deve essere ampio il perdono? La parabola ha origine da una domanda di Pietro: "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?" Sette volte: chissà quanto gli pareva di essere generoso, nell'indicare quel numero, e certo non si aspettava come risposta "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette", cioè sempre.

Il comportamento degli uomini deve modellarsi su quello di Dio, il quale non dice mai basta a chi ricorre alla sua misericordia. Ma a condizione che facciamo altrettanto tra noi. "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori": così Gesù ha insegnato a pregare; lo ripetiamo col Padre Nostro chissà quante volte, ma quante volte poi lo mettiamo in pratica? Offese e torti, rancori e ripicche, sono all'ordine del giorno, tra parenti, vicini di casa, colleghi di lavoro e così via. Solo il perdono tronca sul nascere questa catena infernale, che amareggia la vita e provoca ferite spesso insanabili quando non veri e propri delitti. 


Di offese e torti qualcuno si vendica perché pensa che il perdono sia segno di debolezza, cosa da donnicciole impaurite o da imbelli senza spina dorsale. Ma non è così, e per varie buone ragioni. Basterà ricordarne un paio. La prima prescinde da considerazioni religiose: la vendetta è cosa da barbari, da trogloditi; sono lontani i tempi in cui gli uomini erano un aggregato indistinto di individui, in cui ciascuno doveva pensare a sé e affermarsi da solo in rivalità con i propri simili. Con la civiltà gli uomini si sono dotati di un sistema giuridico, creato apposta per evitare la vendetta privata e demandare la soluzione dei conflitti a una parte terza, che giudica con obiettività in base alle leggi comuni. La seconda ragione che rende inaccettabile la vendetta si basa sulla fede: se Dio condanna "il rancore e l'ira" che portano alla vendetta, chi è l'uomo per non tenerne conto? Gesù ha ribadito questo comando, l'ha dilatato senza misura, e in più ne ha dato l'esempio nella forma suprema, perdonando addirittura a chi lo stava inchiodando alla croce. Il perdono è tutt'altro che debolezza: è padronanza di sé, è coraggio, è espressione di una conseguita umana maturità.


Conflitti, considerando i limiti della natura umana, ne sorgeranno sempre, spesso pretestuosi, talora con fondamento: ma odio e vendetta non ne hanno mai risolto uno. Il perdono è la matrice della pace: la pace del cuore, a sua volta matrice della pace sociale. Il cristiano, inoltre, perdonando richiama e manifesta l'infinita bontà divina. Un'orazione della Messa di oggi suona così: "O Dio di giustizia e di amore, che perdoni a noi se perdoniamo ai nostri fratelli, crea in noi un cuore nuovo a immagine del tuo Figlio, un cuore sempre più grande di ogni offesa, per ricordare al mondo come tu ci ami".

 

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