TESTO Per un elogio della snellezza
don Angelo Casati Sulla soglia
VII domenica dopo Pentecoste (Anno A) (19/07/2020)
Vangelo: Lc 13,22-30
22Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. 26Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. 27Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
Anche oggi un dialogo lungo la strada, mentre si cammina, verso Gerusalemme, dove l'opposizione al Rabbi di Nazaret sembrerà esplodere. Ci sono anche oggi stranezze nel racconto. Ecco la prima. Un tale gli chiese: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?". Disse loro: "Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno". La domanda è di un tale. Di un singolo. Gesù risponde al plurale: "Sforzatevi...". Dunque risponde a lui e ad altri. Mi verrebbe da dire che il tale è un rappresentante di categoria. Quale sia la categoria appare dalla sua domanda e dalle parole di Gesù.
La categoria è di coloro che discutono degli altri e minimamente li sfiora che la domanda riguardi anche loro. Gesù non fa questione di numeri: quanti - diremmo - vanno in chiesa, quanti non vanno, e così via. Poco prima nel vangelo aveva messo in guardia dal lievito dei farisei, separati dagli altri, giudicanti: "Noi non siamo come quelli!". Ma chi crede di essere quel Rabbi che li mette in discussione. Alla fine gli diranno: "Vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere". In realtà che sparisse era interesse loro. Uno, pensate, che diceva loro che avrebbero trovato la porta chiusa. Loro così sicuri del loro diritto alla porta aperta. Ed ecco la domanda: "Dove nasce questa pretesa, questa presunzione della porta aperta?". Ascoltiamoli: " Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze".
Si rifugiano nella garanzia della loro partecipazioni a riti. Oggi potremmo dire: "Ma scusa, abbiamo preso parte fedelmente alla cena eucaristica, abbiamo partecipato alla catechesi, abbiamo fatto di tutto per aprirti le piazze a manifestazioni religiose". Sembrano dire: "Ma noi siamo di casa". Pensano che sia questo il salvacondotto. E Gesù risponde con una parola che mi inquieta. Sì, perché non so se io sempre abbia tenuto in conto l'avvertimento di Gesù - è di poche pagine prima - a stare in guardia dal lievito corrotto dei farisei, che è l'ipocrisia e a far invece mio i lievito buono della sincerità, quello della donna del vangelo che impasta farine, farine e lievito sincero, non inquinate da ipocrisie. Ed ecco la parola che mi inquieta. E Gesù la ripete due volte. Detta a coloro che sbandierano frequentazioni.
Questa: "Voi non so di dove siete". Quasi dicesse: "Non vi riconosco, mi siete estranei. Mi avete frequentato, ma siete lontani anni luce dal mio modo di sentire e di pensare. Non c'è la minima sintonia. Per questo vi tocca star fuori: entrando vi trovereste in un mondo che non è il vostro. Il mondo delle beatitudini, un mondo aperto, dove l'anelito è per la trasparenza, per l'umiltà, per la mitezza, per la semplicità, per la giustizia. Giustizia, parola che - voi lo avete notato - fa divaricazione: "Via da me voi operatori di ingiustizia". "Giustizia" parola che apre la porta. Mi chiedo: "E' la mia passione?". La porta è stretta. Mi verrebbe da dire che i corpulenti, non ci possano passare.
Voi mi capite, parlo di una corpulenza dello spirito, in contrapposizione a una snellezza dello spirito. E al cuore mi ritornano le immagini del salmo 73: "Fino alla morte infatti non hanno sofferenze / e ben pasciuto è il loro ventre. Non si trovano mai nell'affanno dei mortali / e non sono colpiti come gli altri uomini. Dell'orgoglio si fanno una collana / e indossano come abito la violenza. I loro occhi sporgono dal grasso, / dal loro cuore escono follie. Scherniscono e parlano con malizia, / parlano dall'alto con prepotenza. Aprono la loro bocca fino al cielo / e la loro lingua percorre la terra. Perciò il loro popolo li segue / e beve la loro acqua in abbondanza" (4-10).
Perdonate la stranezza di questi miei pensieri. Occorre magrezza per entrare nella porta stretta. E la parola me ne ha richiamata un'altra, la parola "sobrietà" e un commento che alla parola "sobrietà" fece Corrado Lorefice, l'arcivescovo di Palermo, pochi giorni fa nel suo discorso alla città rivolgendosi alla patrona, nella festa di Rosalia. Così la pregava: "E poi tu, Rosalia, sei uscita dalla ricca casa di tuo padre e per tutta la tua breve vita hai sempre voluto abitare in una grotta. Con naturalezza, con dolcezza, ti sei messa dalla parte della sobrietà, della vita semplice, che ha bisogno di poco, che gode di ogni istante e di ogni giorno. È come se tu stasera ci ricordessi che la pandemia, ogni pandemia, è stata ed è una grande lezione di sobrietà.
Sono sempre stato colpito dal significato di questa parola. Se guardiamo alla sua origine, infatti, essere sobri (sophron) vuol dire essere 'sani di mente'. Possiamo pensare, carissima Rosalia, che tanti, ai tuoi tempi, abbiano pensato che tu fossi una pazza a lasciare le comodità del palazzo per vivere in quella grotta. Ma non capivano che i pazzi erano loro, e tu avevi scelto la via di una vita bella e umana. Ed è come se tu stasera dicessi anche a noi che siamo stati dei folli, fino ad oggi, ad ubriacarci di cose, a correre come i matti, ad accumulare appuntamenti, come se la vita dipendesse dai beni, come se la felicità dipendesse dalla quantità e non dalla qualità.
Rosalia, tu ci inviti a riscoprire la lentezza, le piccole cose, la gioia di gesti e di atti di cui non ci rendevamo più conto, che non apprezzavamo più. Dire una parola buona, guardare negli occhi chi ci ama, aspettare che venga su il caffè e berlo accanto alle persone con cui condividiamo la vita, innaffiare una pianta o scambiare quattro chiacchiere per il puro piacere della compagnia, dare una mano al vicino, alla vicina di casa di cui non ci siamo mai accorti". La sobrietà - vorrei sottolineare e chiudo - come prezzo della libertà. Altrimenti si ritorna schiavi. Vedete, nel cuore mi è rimasta l'Immagine delle dodici pietre che Giosuè fa erigere come stele nel Giordano, come segno del passaggio delle dodici tribù verso la libertà. I figli chiederanno, i padri risponderanno che sono un memoriale di una libertà riconquistata, importante ricordare.
Penso alle pietre di inciampo nella nostra città. A chi le vorrebbe sporcare. Restino luminose a ricordarci la porta stretta. Verso la libertà.