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TESTO Ma lui è Rafael!

don Angelo Casati  

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V domenica T. Pasqua (Anno A) (10/05/2020)

Vangelo: Gv 14,21-24 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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21Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

22Gli disse Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?». 23Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.

Che amore non sia, né debba mai essere, una parola stinta, da declamare a toni alti dai pulpiti - e più è stinta, più enfatici i toni - ma che amore chiami concretezze è detto, senza "se" e senza "ma" nei pochi versetti che la liturgia oggi legge dal vangelo di Giovanni. Dico questo perché nelle sue parole oggi Gesù sembra creare un gancio, un gancio stretto, strettissimo, quasi da parete, tra amore e comandamento, tra ciò che arde dentro e le mani che seguono quasi per istinto. Non so se c'entra il detto: "Al cuore non si comanda". Quasi a dire l'imperiosità dell'amore, ma anche la bellezza che sia il cuore, e non altro, a comandare.

E se è il cuore a comandare non c'è scampo, né ci sono spazi con divieto d'accesso. Tra parentesi: se alla parola "amore" sostituissimo qualche volta in più la parola "il cuore e i suo comandi"? Il comandamento del cuore, dunque, la bellezza dei comandamenti dettati dal cuore. Ecco il gancio, nelle parole di Gesù: "Il Signore Gesù disse ai discepoli: "Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama... Chi non mi ama, non osserva le mie parole"" Un problema potrebbe nascere, questo: "E qual è il suo comandamento, osservando il quale potremmo dire che lo amiamo?". Ma qui non ci si perde, perché quale sia il suo comandamento lui stesso l'ha detto con fulminante chiarezza, nessuna possibilità di fraintendere: "Questo è il mi comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi".

Voi mi capite sino a qual punto Gesù ami la concretezza! Dà all'amore un esito concreto, pienamente umano. Quasi dicesse: "Mio comandamento non è tanto che vi prendiate cura di me, prendetevi cura di voi stessi". Per dire la concretezza, un mio amico monaco, uomo di spirito è solito ripetere che amare significa due cose: ascoltare e far da mangiare. E mi nasce in cuore l'immagine di una tavola: ci si ascolta e si mangia. Ma tavola dell'amarsi, casa dell'ascoltarsi e del prendersi a cuore non ha luogo solo nelle case, è, deve essere in ogni dove di terre e di umanità, lo spazio del comandamento.

Concretezza: "Se vi amate gli uni gli altri è allora che amate me". Ma nel piccolo brano del vangelo intravedo un'aggiunta che mi sta intrigando e voi capirete il perché. E' un'aggiunta che mi lascia il cuore sospeso e mi spalanca gli occhi. L'ho intravista là dove Gesù allude al "divino" che si riversa sulla terra. Ecco le parole: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui". Le dimore del "divino" sulla terra, spazi del divino sulla terra. Accadono. Accadono dove ci si ama come lui ci ha amati. E allora va' in cerca del "divino" e stupisciti, lasciati sedurre.

Vorrei solo dirvi che a me accadde in questi giorni. Mi accadde martedì pomeriggio. Ero in attesa in una grande sala del pronto soccorso del Policlinico. Seduto su una sedia aspettavo che mi chiamassero e mi chiedevo perché le pareti si facessero sempre più bianche, già lo erano di loro, ma sempre più. Era solo una mia allucinazione? Come se fosse sceso del "divino" nella grande sala. E mi ritornavano al cuore le parole: "Faremo dimora...".

Fu allora che in tutta evidenza mi apparve che l'aggiunta di luminosità nella grande sala non fosse per rialzo di luce né per opera di angeli scesi del cielo, ma per angeli dalla terra. Non era forse per via del giovane medico, che, da dietro del suo scafandro, mi guardava con occhi rassicuranti, quasi allegri, lui che, per via di un prelievo, pur di non farmi alzare, si era chinato fin quasi a terra inginocchiandosi e mi riportava a memoria un'arte esercitata ampiamente dal mio Signore, l'arte di piegarsi a terra? E anche quella di lavare piedi stanchi e impolverati: "Come io vi ho amati".

Ma la sensazione come di un divino che prendesse dimora nel grande salone mi accade ancor più viva poco dopo, quando le porte a spinta si aprirono, una barella portava un uomo un po' sfatto, abiti arruffati, grandi occhi in un viso provato, grida come di lamento e pianto. Potevi immaginartelo: era un clochard. Gli si fecero gruppo, intorno al lettino. gli angeli bianchi, angeli donne e angeli uomini. E che importa il sesso degli angeli! Piegati su di lui a rassicurarlo ogni volta che una mossa o un'altra delle cure gli procurava dolore. Che stesse quieto - gli dicevano - che a poco a poco sarebbe stato meglio. Gli chiedevano se avesse bevuto, gli assicuravano che di lì a poco avrebbe mangiato. Che si lasciasse fare.

Lui un po' ascoltava, un po' gridava, un po' si lamentava, un po' chiamava sua mamma. Alla fine l'acquietarono. La grande sala si era accesa di luce alle pareti. Ma ora sapevo il perché. Mi passò vicino uno degli angeli. Lo fermai, gli dissi: "Ma sapete che mi avete commosso, sono ancora commosso". "Ma perché?" mi chiese. "Ma per la tenerezza con cui vi prendete cura di quel clochard" dissi "tutti piegati su di lui a sollevarlo dalle sue ombre. Mi fate commozione". Mi rispose: "Ma lui è Rafael e noi lo conosciamo".

Era Rafael: per loro non era un numero. "E noi lo conosciamo": di mezzo non c'era una nuda prestazione, c'era una relazione. Succede. Quando si diventa numeri la stanza dell'umanità si fa buia e accusa assenza di "divino". Ma quando sulla terra, in un luogo o in un altro - che lo si sappia o no - si osservi il suo comandamento, allora le pareti bianche si fanno ancora più bianche. Per immersione del divino: "Prenderemo dimora...". Accadde alle ore diciassette di un pomeriggio di maggio, in una sala grande di un pronto soccorso di città.

Cancellate tutto. Tenete: "Ma lui è Rafael. Lo conosciamo".

 

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