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TESTO Dal "me ne frego" al "mi sta a cuore"

don Angelo Casati  

IV domenica T. Pasqua (Anno A) (03/05/2020)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Aveva appena finito di dire loro - a quel gruppo di farisei - che d'ora in poi sarebbe stato lui la porta del recinto. E non porta di sequestro: le pecore con lui sarebbero entrate e sarebbero uscite. Purtroppo nel recinto si erano infiltrati, per abuso, degli estranei. Ma le pecore, le voci degli estranei non le riconoscono. Non capirono che parlava di loro. Rincarò la dose, dicendo che tutti quelli che, abusando del nome di "pastore", si erano introdotti prima di lui nel recinto, erano ladri e briganti. La contrapposizione era netta. Da una parte i mercenari, i briganti, i ladri: estranei! Dall'altra il pastore.

Da una parte lo sfruttamento. Dall'altra il dare la vita. Il pastore dà la vita: nei suoi occhi, al centro, sta la passione per gli altri; il mercenario succhia la vita: è lui al centro, in realtà tutto in funzione di se stesso, dei propri interessi, della propria ambizione. Ebbene il recinto, dove a dimorare è un pastore, lo riconosci, diventa famigliarità, c'è il calore del prendersi cura gli uni degli altri. Il recinto dove si è introdotto il mercenario lo riconosci, è il regno dell'organizzazione: "si fa così e poi così", non c'è calore, ci sono sudditi. Uno solo parla. Non c'è chi ascolta la tua voce.

Mi colpiva nella prima lettura di oggi il clima, oserei dire di famigliarità, della prima comunità dei credenti a Gerusalemme. Quando, per sovraccarico di impegni, nasce un problema, non sono gli apostoli a decidere da soli, vogliono sentire la voce di tutti - cosa che abbiamo nel tempo dimenticata - e i diaconi non li scelgono loro, gli apostoli; li sceglie la comunità, loro imporranno le mani. Un'amica giorni fa mi segnalava il passaggio di un omelia di Casa Marta. Papa Francesco commenta un passo del vangelo dove Gesù reagisce ai discepoli che lo invitano - è già sera - a congedare la folla, dicendo: "Dategli voi da mangiare!". E commenta: "Ma il Signore cercava la vicinanza con la gente... e forma, insegna ai discepoli, agli apostoli questo atteggiamento pastorale che è la vicinanza al popolo di Dio....

E questo è quello che Gesù dice oggi a tutti i pastori: "Dategli voi da mangiare". "Sono angosciati? Dategli voi la consolazione? Sono smarriti? Dategli voi una via di uscita. Si sono sbagliati? Dategli voi aiuto per risolvere i problemi... Dategli voi, dategli voi...". Il papa ricorda che il vangelo di Giovanni racconta che, poco dopo la condivisione del pane tra i cinquemila sull'erba del monte, Gesù sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si eclissò, si ritirò sul monte tutto solo. "Gesù" dice il Papa "fa vedere che quella non è la strada.

Il potere del pastore è il servizio, non ha un altro potere e quando sbaglia prendendo un altro potere, si rovina la vocazione e diventa, non so, gestore di imprese pastorali ma non pastore. La struttura non fa pastorale: il cuore del pastore è ciò che fa la pastorale. E il cuore del pastore è quello che Gesù ci insegna". Posso sbagliare, ma io penso che la gente, il gregge di Dio, è tutt'altro che un gregge cieco, fatto da ingenui. Riconoscono la voce, avvertono quando la voce dei pastori è preoccupata dell'organizzazione - come dice Francesco - e quando, invece, dei problemi che la gente sta vivendo. Si tratta di una vicinanza che è presupposto ineludibile per una conoscenza. Sembra di dire cose ovvie: da distanti come ci si può conoscere?.

A fronte dei mercenari cui non importa delle pecore, Gesù dice: "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore". Mi ha colpito questo verbo, ripetuto con insistenza da Gesù, il verbo "conoscere", verbo che caratterizza, direi, i rapporti. Tra Gesù e il Padre, tra Gesù e le pecore. E se dicessimo che è un verbo che racconta del gregge di Dio? Pensate quanto si fa e quanto si parla, senza conoscersi. Verbo che peraltro nel vangelo ha una intensità e una intimità particolare. Quella che spesso non ha quando sbrigativamente diciamo: "Sì, quello lo conosco".

E' un verbo che non racconta una conoscenza superficiale, ma un verbo che entra nella carne. Racconta un rapporto profondo, di intimità, fino a raccontare una intimità sessuale. Maria all'angelo dice: "io non conosco uomo". Conoscersi. Io l'altra la conosco? L'altro lo conosco? So che cosa passa nel suo cuore? Lei sa, lui sa, che cosa passa nel mio cuore? Voi mi capite benissimo: è la sconfessione, il ripudio della estraneità. Come ci fosse fatto divieto di guardare come estraneo uno qualunque, a qualunque recinto appartenga. Tu per me non sei estraneo. Come Gesù non lo è per il Padre, come noi non lo siamo per lui. E' la sconfessione dell' "io me ne frego". E' la celebrazione del "Mi sta a cuore".

Creare vicinanza crescere nel conoscerci, abbandonare ogni forma di estraneità. E perché dovremmo avere paura? E chi potrebbe proibirci di amare? E non è questo che dovrebbe stare a cuore a una chiesa? E non il potere. Non i privilegi, ma sentirsi, nella carovana con tutti! Ce lo faceva sognare anni fa un vescovo profetico, uno di quelli che accendono i cuori. Era il lontano 1985. E don Tonino Bello scriveva di "una Chiesa povera, semplice, mite. Che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza.

Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e, per il resto, debole. Una Chiesa disarmata, che si fa "compagna" del mondo. Che mangia il pane amaro del mondo. Che nella piazza del mondo non chiede spazi propri per potersi collocare. Una Chiesa che condivide la storia del mondo. Che sa convivere con la complessità. Che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare alla messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e senza rateazioni, di una vita morale meno indegna e più in linea con il vangelo".

E' la chiesa, ed è anche un modo di vivere, che Gesù ci ha fatto sognare. Parlandoci di pastore e di pecore...

 

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