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TESTO E le piste siano quelle del vento...

don Angelo Casati  

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Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno A) (26/01/2020)

Vangelo: Lc 2,22-33 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 2,22-33

22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.

25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo

vada in pace, secondo la tua parola,

30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,

31preparata da te davanti a tutti i popoli:

32luce per rivelarti alle genti

e gloria del tuo popolo, Israele».

33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui.

Oggi dal vangelo di Luca è come se affiorassero sequenze della famiglia di Nazaret, e d'istinto il pensiero va alle famiglie di oggi. La famiglia di Nazaret - lo abbiamo ascoltato nella prima orazione della Messa - viene subito presentata come un modello. E lo è! Ma con qualche precisazione. Immagino infatti che qualcuno di voi potrebbe eccepire sulla parola "modello", se modello richiamasse copiatura. Già per come è composta, tutti noi avvertiamo che, in quella storia, c'è qualcosa di non imitabile. D'altro canto però percepiamo che c'è qualcosa che parla anche alle nostre famiglie. Dobbiamo riconoscere che oggi ci troviamo in contesti storici abissalmente diversi.

Ed è anche vero - e spesso lo dimentichiamo - che ogni famiglia ha un sua peculiarità, una sua storia. Non assimilabile alla storia di nessun'altra famiglia. Anche per questo ci sembra importante scoprire, nella famiglia di Nazaret, una sapienza del vivere che va oltre le forme che le famiglie assumono nel tempo. Quasi una fonte preziosa di ispirazione. Ebbene vorrei radunare i miei pensieri intorno a due suggestioni: il "dentro" e il "fuori". C'è un "dentro". E dentro c'è aria di attesa. La famiglia - lasciatemi dire - ha figura di attesa. Sei stato attesa, atteso, per nove mesi, prima che tu sgusciassi. Poi attesa, atteso ogni giorno, atteso così come sei: non hai bisogno di maschere. Puoi anche stare lontano. Ma tu lì hai un luogo. Vorrei però aggiungere che la famiglia, sì, ti è data come un dono. Ma tu la devi tenere viva ogni giorno, così come una lucerna. Che arde se le dai olio. Se no, la famiglia si spegne, diventa un nome. E le mura sono fredde.

Che cosa tiene viva una famiglia? Calde le mura? Non certo una presenza qualsiasi. Oggi la lettera ai Colossesi, dopo averci invitati a rivestirci di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità e dopo averci invitati al perdono, ci diceva: "Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità che le unisce in modo perfetto". Anche il libro del Siracide oggi chiamava attenzione per i genitori, per i sacerdoti, per il povero, e chiudeva: "La tua giustizia si estenda ad ogni vivente". Voi lo intuite: è come se tutto nascesse da un modo di guardarsi. Le mura di una casa non bastano, per essere di casa. E' decisivo come sei guardato. Non bastano le mura che ti ospitano: è decisivo se tu hai un luogo negli occhi, se sei ospitato negli occhi. Voi mi capite, la famiglia come luogo degli occhi. E non è scontato.

Se si vive insieme ma non si è ospitati nella tenerezza degli occhi, la famiglia è un nome, semplicemente un nome, o una bandiera scolorita da agitare. Voi sapete che cosa vuol dire e che cosa si sente quando si è ospitati negli occhi di un altro, di un'altra! Altrimenti "famiglia" è parola vuota. Vorrei dirvi, se posso, dell'importanza del tempo del guardarsi. E vorrei dirvelo perché a me sembra che l'accelerazione frenetica del nostro tempo può avere come contraccolpo triste e devastante quello di non lasciarci nemmeno più il tempo del guardarsi, del guardarsi con tenerezza. E allora non è più casa, non è più famiglia: sei straniero. Il tempo del guardarsi e, vorrei aggiungere, quello del parlarsi, e, vorrei ancora aggiungere, quello dell'accarezzarsi.

Sull'importanza del comunicare in famiglia ha parlato papa Francesco nell'ultimo angelus del 2019. E, a braccio, ha aggiunto: "Io mi domando: tu, nella tua famiglia, sai comunicare o sei come quei ragazzi a tavola, ognuno con il telefonino, mentre stanno chattando? In quella tavola sembra vi sia un silenzio come se fossero a messa". Il "dentro della famiglia" conosce il guardarsi, il parlarsi, l'accarezzarsi. E ora vorrei sfiorare il "fuori" della famiglia. Perché, se non c'è un "fuori", la famiglia intisichisce, diventa gabbia, aria asfissiante, che giustifica le fughe: ci cono fughe dettate da mancanza di amore, ma ci sono anche fughe dettate da mancanza d'aria, nel tentativo di salvare se stessi. E penso al "fuori" di Gesù, che, salito a Gerusalemme - un viaggio lungo, fuori dalla casa di Nazaret - si permette di rimanere fuori, fuori dalla sua famiglia quando la carovana riprende il cammino verso casa.

Non si è smarrito, come ci facevano credere un tempo quando si recitava il rosario. No, decide di stare fuori. Ma c'è un particolare su cui mi sono soffermato quest'anno - pensate dopo quanti anni! - questo: è scritto che i suoi genitori "credendo che fosse nella carovana fecero una giornata di viaggio". Dunque - mi sono detto e perdonate se mi esprimo cosi - dunque l'avevano cresciuto bene, non era un ragazzo appiccicato alla gonna di sua madre; doveva essere normale per loro che lui stesse con altri. Abituato alla carovana. Vedete, a volte ci immaginiamo un Gesù tutto casa e lavoro e sinagoga sino a più di trent'anni. Ma vi sembra? A stare fuori, a stare in carovana, l'avevano educato i suoi - benedetti loro! -. E a lui doveva piacere stare fuori. Già a dodici anni! Aveva imparato.

Solo che, a volte, anche quando un figlio l'hai educato a stare all'aria aperta, anche fuori casa, a respirare aria diversa, non ti è sempre facile - non è cosa immediata - accettare che sia fuori dai tuoi schemi, e che abiti un progetto che viene dall'alto. E che tu non devi incanalarlo nel solco dei tuoi progetti: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi dell cose del Padre mio?". Devo confessarvi che mi sembra un'operazione un po' ingenua quella di coloro che commentano questo brano dicendo che poi tutto andò a posto: fece ritorno a casa; tutto risolto! Nella testa dei suoi genitori certo che no.

E' scritto: "Essi non compresero". Incomprensioni nella famiglia di Nazaret! E ce ne saranno altre quando uscirà di casa per la sua missione. Non è cosa da poco accettare il "fuori", e non solo ll "fuori" dei figli, ma il "fuori" dell'altro, dell'altra. In ogni relazione. Un "fuori", una soglia, da rispettare, da onorare, da amare.

Mi rimane una domanda: io ingabbio o insegno a volare? E poi le piste siano quelle del vento.

 

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