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TESTO Commento su Matteo 25,31-46

don Walter Magni  

Domenica di Cristo Re (Anno C) (10/11/2019)

Vangelo: Lc 20,27-38 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 25,31-46

31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

Nei giorni che la tradizione dedica al ricordo dei defunti, un senso di tristezza ci prende. Come fossimo attraversati dal timore che tutto va a finire, intrappolati in un limite invalicabile; presi da uno spaesamento, da uno smarrimento strano che subito la liturgia di questa domenica contesta regalandoci un orizzonte diverso e nuovo.

La morte annientata
Andiamo alla radice della nostra fede, quando diciamo di credere in Gesù Cristo morto e risorto. Convinti che non si tratta di far leva su un ragionamento astratto, ma anzitutto sentendoci immersi in una relazione viva con la persona di Gesù. Lui, che avendo attraversato il buio della morte, è entrato definitivamente nella vita luminosa di Dio Suo Padre. E proprio questo noi cristiani chiamiamo resurrezione. Quella dimensione nuova e impensabile che Gesù ha acquisito sino ad essere chiamato: Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell'Universo. Una signoria sul mondo, su tutte le cose e su ogni uomo e donna che hanno attraversato questo mondo, che solo un passaggio così singolare dalla morte alla vita potrebbe sostenere. Una regalità che permette a Gesù, chiamato qui col titolo di Figlio dell'uomo, di sovrastare e dominare l'intero universo creato. Carico di vita di ogni specie, carico di un'umanità dentro i ritmi di un tempo che ha imparato a conteggiare. Tutto, proprio tutto sta sotto il Suo sguardo e persino la morte non Gli sfugge più. E non si tratta di riferirsi a un vago e generico desiderio di immortalità dell'anima e neppure alla reincarnazione. Come se qualcosa che resta ci potesse introdurre a un dopo morte, a un oltre indefinito e incolore. Stando al cospetto del Figlio dell'uomo, ci è dato molto di più. Che sia Gesù che ha vinto la morte o che non ci sia cosa o persona di questo universo che a suo modo non sia altra espressione della stessa vita di Dio, del Suo amore appassionato, del Suo farSi dono, del Suo perderSi per le Sue creature.

Un Dio che solo cerca amore
E mentre “davanti a lui verranno radunati tutti i popoli” - che cosa vede Gesù, il Figlio dell'uomo? Che cosa va cercando? Cosa ancora Lo commuove e Lo innamora? Una immensa sete d'amore. Come un cuore che cerca un cuore e che non si sente appagato se non trova amore. Il Suo sguardo cerca ancora tra gli uomini e le donne che Gli stanno di fronte, spiragli di bontà, gesti di pace, senso di mitezza, capacità di consolazione, attesa di giustizia. Scriveva Teillard de Chardin: “Ci deve pur essere un punto di vista dal quale il Cristo e la Terra appaiono situati in tal modo, l'Uno in rapporto all'Altra, che io non potrei possedere l'Uno se non abbracciando l'Altra, comunicare con l'Uno se non fondendomi con l'Altra, essere cristiano se non essendo disperatamente umano” (Recherche, travail et adoration). La buona notizia che questa pagina di Matteo ci porta è che solo l'amore resta. L'amore che abbiamo dato; l'amore che qualcuno ci ha regalato. Come se Gesù volesse stabilire che il giudizio ultimo e universale altro non sia che il riconoscimento di un legame. Quella relazione inscindibile con ogni uomo, che in Lui giunge ad identificarsi con tutti: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Come dicesse: vi amo a tal punto che se siete malati allora è anche la mia carne che soffre, se avete fame allora sono io che ne patisco i morsi, e se mai qualcuno vi offrisse un aiuto, anch'io ne provo sollievo. Perché siamo fatti della stessa carne. E per questo neppure la consapevolezza è richiesta.

Il peccato? Opporsi all'amore
E il vangelo di Matteo parla anche di coloro che proveranno respingimento e condanna. Dove si nasconde la loro colpa mortale? Nel non aver creduto all'amore. Né all'amore esercitato nei confronti dell'altro; né all'amore che qualcuno ha osato esprimere nei suoi confronti. Neppure si tratta di essere stati giudicati cattivi, insensibili o violenti nella loro esistenza. Neppure l'efferatezza di certe loro azioni viene sottoposta a un giudizio irreversibile. La radice del loro male, il senso ultimo della loro condanna senza appello va ritrovata più semplicemente in una voluta mancanza d'amore. In una preventivata sottrazione alla logica dell'amore. Senza permettere al loro cuore di provare un po' di commozione, senza lasciarsi muovere dalla compassione, senza lasciarsi abitare anche solo per un attimo da quell'amore che Gesù a piene mani ha profuso sulla terra. Perché ancora una volta si trattava di entrare, anche senza saperlo, nel solco di una relazione più grande, quella del rapporto con Lui. Perché ancora una volta “tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me”. Non basta ritenersi buoni perché non facciamo nulla di male. Anche il silenzio di chi sta alla finestra può uccidere un fratello, sottraendosi all'incontro con Lui. Il contrario dell'amore non è per sé l'odio, ma l'indifferenza che annienta il fratello che non voglio vedere. Papa Francesco ha parlato di una “globalizzazione dell'indifferenza”. Riattiviamo lo sguardo che sa ancora accorgersi dell'altro, sino ad accorgersi di Lui. Anche il Figlio dell'uomo, vedendoci, ci riconoscerà beati.

 

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