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don Giacomo Falco Brini  

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (27/10/2019)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 9disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Due uomini vanno al Tempio, due uomini che cercano Dio, entrambi vogliono pregare (Lc 18,10). Uno era fariseo: cioè un uomo religioso, un uomo che ha come cardine della propria esistenza la fede del popolo con le sue esigenze. L'altro era un pubblicano: un uomo non proprio esemplare, uomo di grande dimestichezza negli intrallazzi di potere e di denaro, opportunista e collaborazionista del dominatore di quel tempo. Dunque due figure abbastanza agli antipodi. Ma non per Dio che, secondo il Siracide (1a lettura), è giudice, e in lui non c'è preferenza di persone. La breve parabola che riguarda questi due uomini ha destinatari precisi: alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri (Lc 18,9). Lo scopo: suscitare il bisogno della conversione in chi non sente di doversi convertire.

La parabola ci fa entrare nella preghiera di ciascuno. Nella sua, il fariseo esprime dettagliatamente la propria gratitudine a Dio prendendo le distanze dall'umanità peccatrice che lo circonda, anzi, persino da un peccatore che si trova in maggior prossimità fisica, cioè il pubblicano alle sue spalle (Lc 18,11b). Inoltre, altro motivo di ringraziamento a Dio sono le sue opere, cioè i digiuni e le decime dei possessi che gli offre. Sembrerebbe che la religione di costui abbia al centro un Dio a cui si può piacere solamente con privazioni e offerte. Una religione che, mentre ti fa amico di Dio, ti separa dagli uomini conducendoti a disprezzare quelli che non si possono presentare al Signore nella modalità “esemplare” che lui incarnerebbe. Ma è così che si piace a Dio? Credere in Lui e diventare suoi amici, significa camminare per distinguersi progressivamente dagli altri? Può una preghiera così raggiungere il cuore di Dio?

La preghiera del pubblicano invece è breve, non parte da un ragionamento tra sé (Lc 18,11a), non fa confronti con gli altri, nasce piuttosto dalla distanza che si sente da Dio con gli occhi rivolti al proprio cuore (Lc 18,13a). E quando si guarda sinceramente nel proprio cuore, non ci si può che battere il petto e dirgli prima di tutto: o Dio, abbi pietà di me peccatore (Lc 18,13b). Le parole finali di Gesù non danno adito a dubbi circa la preghiera che Dio gradisce: il pubblicano torna a casa giustificato, l'altro no (Lc 18,14). Dunque c'è qualcosa che non funziona nella religiosità del fariseo. Perché Dio non è un personaggio da addomesticare con penitenze e offerte. Non si diventa suoi amici cercando di vivere la preghiera, l'onestà, la fedeltà e ogni altro valore per essere il più possibile impeccabili e distinguersi dagli altri. Non è questo il Dio di Gesù Cristo e di tutte le S. Scritture.

Attraverso la realtà della preghiera, ci troviamo ancora una volta di fronte al tema della giustificazione. Non si diventa giusti per le proprie opere, direbbe S. Paolo, ma per l'opera che Dio compie in noi. E l'opera di Dio, in qualsiasi autentico credente, avviene nel miracolo della sua misericordia che agisce sulle miserie del nostro cuore esposte e non nascoste. Scopriamo dappertutto nella Bibbia che il cuore che piace a Dio è il cuore sincero. Ma tu vuoi la sincerità del cuore e nell'intimo mi insegni la sapienza, recita uno dei miei salmi preferiti (Sal 50,8). Il cuore che piace a Dio è il cuore che sa umiliarsi o accogliere l'umiliazione: uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato tu, o Dio, non lo disprezzi (Sal 50,19). Solo il cuore che cerca la giustificazione nella bontà misericordiosa di Dio può raggiungerlo nella preghiera e piacergli!

Aggiungo un'ultima considerazione a proposito della preghiera, avvalendomi dell'aiuto di S. Agostino. Non che me ne occupi più di tanto, ma ho sempre una certa sensazione che dietro a preghiere interminabili cui a volte assisto in santuari o luoghi di preghiera privilegiati, ci sia una preoccupazione eccessiva nel voler raggiungere il Signore ed essere ascoltati da Lui. Mi sembra che una lezione proveniente dalla preghiera del pubblicano sia che, quando si confida nella misericordia di Dio, non occorrano tante parole per pregare. In questo senso, anche il Signore Gesù si è raccomandato con i suoi discepoli (cfr. Mt 6,7). E S. Agostino insegna: lungi dunque dalla preghiera ogni verbosità, ma non si tralasci la supplica insistente, se perdura il fervore e l'attenzione. Il servirsi di molte parole nella preghiera equivale a trattare una cosa necessaria con parole superflue. Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime, che con i discorsi. Dio infatti pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime, e il nostro gemito non rimane nascosto a Lui, che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo e non cerca le parole degli uomini (S. Agostino, Lettera a Proba, 130,9,18-10,20).

 

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