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TESTO Pregare per credere

padre Gian Franco Scarpitta  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (20/10/2019)

Vangelo: Lc 18,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù 1diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

La fede è indissolubilmente legata alla carità e alla riconoscenza e, come si diceva la scorsa Domenica, chi non è capace di rendere grazie non dimostra di essere uomo di fede.

Le letture di oggi ci invitano a riflettere su un valido supporto che ci aiuta ad alimentarla e ad accrescerla costantemente, questa fede, poiché non possiamo impossessarci di questa virtù e farne uso come una prerogativa fra le tante o come un oggetto che spontaneamente si raccoglie e si mette in tasca per essere adoperata ogni volta che serve. Il rapporto di intimità con Dio, l'umiltà di ammettere il primato di Dio lasciando che Lui operi nella nostra vita, di accettare i suoi consigli mettendo in pratica i suoi comandamenti, la disposizione a credere e a vivere e ad esercitare per mezzo della carità vivendo radicalmente la speranza (appunto tutto questo è la fede), tutto questo fa parte della presa di posizione del vissuto e per ciò stesso va costantemente curato e alimentato.

Uno degli strumenti che ci viene suggerito per farlo è la preghiera, esercizio di umiltà ed esteriorizzazione della fede medesima, attraverso la quale possiamo esprimere la gioia dell'incontro con Dio, motivando sempre più il nostro buon proposito di seguirlo.

Pregare vuol dire in primo luogo ammettere che tutto dipende da Dio, a prescindere dai nostri sforzi e dalle nostre qualità.

Nella prima lettura si assiste a uno scontro fra Amaleciti e Israeliti che ha dello spettacolare.

Amalek è un popolo da non sottovalutare, numeroso e ben organizzato nei combattimenti e Mosè, Aronne e Cur sanno benissimo che non sono sufficienti le loro competenze militari per affermarsi contro questo nemico, ma che occorre il sostegno di Dio. Già altre volte nella Bibbia si riscontra che la vittoria di un esercito non dipende mai dalla forza dell'uomo ma dall'opera di Dio (Gdc 1, 2 - 5) e che solo Dio è il Signore degli eserciti (Is 10, 4). In questo passo del libro dell'Esodo si ribadisce con forza la necessità di doversi affidare al Signore per conseguire la vittoria militare, ma soprattutto per esercitare maggiormente l'umiltà vocazionale, riconoscendo che vincere contro gli Amaleciti deve corrispondere al piano di Dio e non ai nostri progetti. Da qui questo atto entusiasmante dell'alzare e abbassare le mani: è un atto di estrema fiducia in Dio, il quale lo aveva fatto uscire al paese d'Egitto, lo aveva assistito durante le proteste del popolo nel deserto di Sin e adesso lo ha condotto fin qui a sostenere quella battaglia decisiva.

Mosè si affida al Signore nel combattere contro Amalek e quando le sue braccia sono protese in alto il suo esercito ha la vittoria sul nemico. Quando invece le abbassa, ecco che immediatamente il suo popolo soccombe e ha la meglio l'esercito amalecita. E così la vittoria si può ottenere grazie al sostegno di Dio che sta operando egli stesso nella persona di Mosè, Aronne e Cur. Gli Israeliti di fatto potenzialmente sarebbero sconfitti: è sufficiente infatti che Mosè si stanchi o che non abbia il supporto di Aronne, Cur o di qualsiasi altro uomo per sostenere le braccia in alto e le sue schiere vengano così sopraffatte dal nemico e questo ancora una volta delucida che il vero protagonista della lotta è sempre il Signore.

Innalzare le braccia verso l'alto è emblematico quindi della fede in Colui che ci trascende, della ricerca di un aiuto ben superiore alle nostre possibilità e allo stesso tempo è anche volontà di accrescere la nostra fede con la preghiera. E' espressione di richiesta fiduciosa, aperta e condizionata dalla sola libertà di Dio di realizzare i suoi progetti indipendentemente dai nostri. Come prima si diceva, la preghiera è un espediente per incontrare Dio ma anche per rinnovare la nostra fiducia in lui, elevando noi stessi nella sua direzione. In tutto questo non si esclude la preghiera di richiesta fiduciosa anche di concessioni materiali o di benefici che potrebbero anche realizzarsi secondo il nostro volere, purché si rispettino le condizioni dell'umiltà e della sottomissione a Lui.

La preghiera fiduciosa è anche espressione della nostra fiducia colloquiale nella paternità di Dio e nella sua misericordia e non per niente Gesù, che invitava più volte a chiamare Dio padre, anzi “abbà”, “caro papà”(Mc 14, 36), in questa parabola che ha per protagonista un giudice spietato ed egoista ci ravvisa della necessità di fidarsi di Lui, considerandolo come nostro Padre sollecito e premuroso, anche quando tale non dovesse sembrarci.

Se infatti un giudice iniquo finalmente si mostra attento alle richieste di giustizia di una povera vedova con il solo obiettivo di non essere da questa ulteriormente importunato, molto più Dio, che è Amore di misericordia e di bontà, si mostrerà sollecito nei confronti dei suoi figli senza essere importunato in alcun modo, ma ascoltando sempre le loro richieste e provvedendo a loro secondo i suoi personali disegni. Questi possono anche non corrispondere alla volontà personale di chi sta pregando, ma risulteranno sempre obiettivi di bene e di bontà, realizzati da un Padre propenso a cercare sempre il bene dei suoi figli.

Pregare, anche a prescindere dalle petizioni e dalle invocazioni, indipendentemente dalle metodologie e dal grado di preparazione spirituale, è sempre un incentivare il nostro rapporto con Dio e un accrescere la nostra fede, coltivando le motivazioni che ci hanno indotti a intraprendere il nostro percorso di spiritualità. La preghiera rinvigorisce la fede, la alimenta e la sostiene soprattutto nelle parentesi di difficoltà e di smarrimento o quando si sia colti da indolenza o aridità interiore. Pregare è un'altra forma di dire che io credo o altrimenti un modo differente di vivere il credo stesso.

Tralasciare a lungo la preghiera conduce invece a disperdere il nostro rapporto con Dio e di conseguenza a raffreddare anche noi stessi, i nostri atteggiamenti, le nostre relazioni con gli altri. Man mano che la preghiera viene a mancare nella nostra vita, si diventa asettici, rigidi e scostanti e un po' alla volta ci si preclude nei confronti del trascendente arrivando anche a misconoscerlo o a considerarlo solamente in relazione ai nostri bisogni. E ciò conduce a smarrire se stessi.

La preghiera coltivata a partire dalla fede, esercitata nella consapevolezza che solamente essa può accrescere il mio rapporto con Dio e solo in essa posso sperimentare l'amicizia e l'accompagnamento certo del Signore, incute in me un progressivo senso di sicurezza e di profondo ottimismo, che mi induce a guardare con più attenzione il mondo che mi circonda e ad interpretare rettamente ogni problema e situazione avversa. A condizione che detta preghiera non diventi per me un' imposizione o una "condictio sine qua non" per essere graditi a Dio, ma che venga avvertita come necessità animata da zelo ed entusiasmo.

La preghiera fondamentalmente dovrebbe far parte della nostra vita continua, secondo i moniti di Paolo: “Pregate incessantemente”(1Ts 5, 17).

E anche Gesù di fatto invita a non lasciarsi cogliere dalla dispersione o dalla pigrizia nella preghiera, ma a pregare di un'orazione continua e fiduciosa espressione della fede e di apertura del cuore, che in tutti i casi consegue l'obiettivo della vicinanza e della corrispondenza divina. Non vi è automatismo fra preghiera ed esaudimento, perché non ci si rivolge al pozzo dei desideri, sempre pronto a far scaturire tutto ciò che chiediamo senza condizioni; pregare non è neppure esprimere un desiderio volgendo lo sguardo alle stelle fiduciosi che da queste possa piovere qualcosa di materialmente vantaggioso, ma è comunque esperienza apportatrice di pace, di gioia e di consolazione quando venga esercitata quale espressione della fiducia in Colui che ci ama e che ascolta.

Personalmente ho riscontrato nella mia vita, soprattutto nei tempi dei Liceo e del Seminario, che pregare non comporta necessariamente essere esauditi nei nostri desideri, ma che senz'altro può realizzare i desideri di qualcun Altro che, pur differenti dai nostri, apportano molti più vantaggi e benefici.

Se non si esterna nella fiducia incondizionata in Dio come Padre e se non è espressione della volontà di accrescere il nostro rapporto intimo con Lui, la preghiera difficilmente può arrecare frutto nella vita.

 

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