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TESTO Precetto e Grazia

don Alberto Brignoli  

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (13/10/2019)

Vangelo: Lc 17,11-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,11-19

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Se dovessimo chiedere a uno dei pochi ragazzi che ancora vediamo partecipare alla messa domenicale nelle nostre comunità: “Ti piace andare a messa?”, nella stragrande maggioranza dei casi ci sentiremmo rispondere in maniera “scarsamente affermativa”, per usare un eufemismo.... Se poi, per giustificare la nostra domanda gli chiedessimo: “Perché ci vai, allora?”, la risposta sarebbe altrettanto immediata e scontata, ovvero “Perché mi obbligano i miei”. Aldilà della bontà o meno e dell'opportunità o meno, da parte dei genitori, di obbligare i figli a partecipare al precetto domenicale (tema complesso da affrontare, ma condivisibile a mio avviso solo da quei genitori che vanno essi pure a messa...), quest'interrogativo e la relativa risposta sono sintomatici di una mentalità fortemente radicata in ogni cristiano praticante, soprattutto in chi vive in un contesto di forte tradizione cristiana, sia a livello sociale che a livello familiare. Cresciamo, infatti, in una mentalità fortemente “religiosa”, che - grazie a Dio - alle radici ha pure una fede profondamente radicata; poi, però, quando la “pianta” cresce, le foglie e i frutti che produce sembrano perdere un po' di quella linfa di fede presente nelle radici, e la pianta rischia di esprimere elementi legati più alla “religione” che alla fede, ossia ai riti, ai gesti, ai precetti, ai momenti liturgici, alla partecipazione alla vita ecclesiale (nella migliore delle ipotesi), incidendo poco, però, sul vissuto quotidiano di fede. Per poi, alla fine, cadere in quel baratro in cui molte società di antica tradizione cristiana sono cadute: c'è sempre meno partecipazione alla vita ecclesiale, e poco a poco quelle che erano comunità di fede diventano aridi deserti.

Uscendo dalla metafora, non ci vuole molto a comprendere che le generazioni precedenti alle nostre, oltre a una pratica religiosa più intensa, avevano pure una fede più radicata della nostra: senza voler valutare o giudicare la fede di nessuno, possiamo però tranquillamente dire che oggi si è forse conservato ancora un po' di pratica religiosa, ma di certo si è persa di molto la dimensione di fede. Perché purtroppo, religione e fede non sempre coincidono. A volte, si è uomini e donne di fede e magari, per i più svariati motivi, non si vive una pratica religiosa ordinaria. Ma quello che più preoccupa, è quando si vive una pratica religiosa priva di fede, legata più al precetto, alla tradizione, all'obbligo, al dovere che a ciò che si sente dentro. È un fenomeno, quello del “legalismo”, che non è figlio del nostro tempo, anzi: viene da molto lontano. Già ai tempi di Gesù, questa mentalità era molto radicata nel popolo ebraico, anche per via di una legge, quella di Mosè, che dava sicurezze e certezze a chi la applicava alla lettera (farisei e dottori della legge in particolare), i quali però rischiavano di mantenere il loro cuore lontano da Dio: avevano assolto i precetti della Legge, per cui la loro vita con Dio era a posto. Non per niente, Dio ogni tanto mandava i profeti e ricordare al popolo di Dio, in particolare alle autorità religiose, che non bastava compiere con i riti prescritti, se il cuore si teneva lontano da Dio.

La vita di fede è innanzitutto riconoscere la Grazia di Dio nella nostra vita come ciò che ci salva, prima ancora dei precetti, delle norme, dei riti, del rispetto di tutte le regole che compongono una religione. Dio non vuole da noi che siamo dei perfetti praticanti: Dio ci vuole innamorati di lui. Guardiamo alla vita di famiglia: perché una casa stia in piedi e funzioni bene, la cosa principale non è che una moglie sappia cucinare o stirare bene, o che un papà sia capace di riparare la bici del figlio in maniera impeccabile risparmiando soldi, e nemmeno che due genitori lavorino giorno e notte perché in casa non manchi nulla. Perché una coppia funzioni, perché una casa stia in piedi, ciò che conta è che ci si ami, ciò che conta è l'amore, ciò che conta è essere riconoscenti l'uno nei confronti dell'altro. Che tristezza, quando in una famiglia non si è più capaci di dire grazie... Che tristezza, quando una persona sta insieme a un'altra, solo perché ha fatto una promessa, e non è più capace di rinnovare questa promessa con atteggiamenti d'amore gratuito, quasi fosse tutto dovuto...

Capiterebbe lo stesso che è capitato a nove dei dieci lebbrosi risanati da Gesù: il loro rapporto con Dio era talmente basato sulla religione e sull'osservanza rituale e scrupoloso dei precetti, che nel momento in cui si accorgono di essere stati risanati, continuano imperterriti per la loro strada, correndo dai sacerdoti per farsi dare il certificato di guarigione ed essere nuovamente riammessi alla vita sociale del villaggio; senza minimamente preoccuparsi di ringraziare il Maestro per l'amore che ha avuto nei loro confronti, attraverso il quale ha ridato loro una vita. Uno solo di quei dieci capisce che il rapporto con Dio è basato sull'amore e sulla grazia, ancor prima che sulla Legge: e invece di correre dai sacerdoti (cosa che senz'altro, poi, avrà fatto) torna indietro e si getta ai piedi di Gesù - come ogni buon discepolo, come la donna peccatrice da lui perdonata, come Maria che si siede ad ascoltare la sua parola invece di tribolare per i mille mestieri come Marta - perché capisce che se lui è salvo non è perché ha osservato i precetti della religione, ma per la sua fede nella Grazia di Dio, che diventa gratuità, che si fa “grazie” per il dono ricevuto.

Questa è la vita di fede: capire che il nostro rapporto con Dio non si può basare sull'osservanza dei precetti di una religione, perché se fosse così, allora veramente tutto ci sarebbe dovuto, come se Dio ci retribuisse per un lavoro svolto per lui. Il nostro rapporto con Dio si basa sulla sua Grazia e sulla nostra capacità di rispondere alla sua Grazia con il nostro grazie, con gesti altrettanto gratuiti come lo è il suo amore nei nostri confronti.

Ci accorgeremo, allora, che la nostra pratica religiosa non è più un precetto o un obbligo da assolvere sin da bambini per non far arrabbiare i nostri genitori o per tenerci buono Dio, ma qualcosa che nasce dal cuore gratuitamente. Non per niente, tutto è Grazia!

 

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