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TESTO La “felix culpa” del Vangelo

don Alberto Brignoli  

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (15/09/2019)

Vangelo: Lc 15,1-32 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:

4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Forma breve (Lc 15, 1-10):

In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:

4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

C'è un'espressione attribuita a un'omelia di Sant'Agostino che suona così: “Felice colpa, quella dei nostri progenitori Adamo ed Eva quando peccarono, perché ci ha meritato di sperimentare la grazia del perdono del nostro Redentore Gesù Cristo”. È un'espressione che ritroviamo pure nella Liturgia della Notte di Pasqua, quando viene annunciata la resurrezione di Cristo col grande canto dell'Exsultet, il Preconio Pasquale: “Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo. Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!”. Sembra un paradosso: com'è possibile definire “felice” una colpa, come si può essere contenti perché si è commesso un errore? E soprattutto, riferito alla vita di fede, come possiamo essere felici perché peccatori?

Sì, in effetti, si tratta di un paradosso: è quella che gli studiosi di sant'Agostino definiscono “la paradossale gioia” di cui sono pervase molte sue opere, forse condizionate anche dalla sua vita, nella quale il santo dottore della Chiesa ha sperimentato più volte il peccato e la lontananza da Dio. Per poi, alla fine, scoprire la gioia del perdono ritrovato, che lo porta a definire “felice” anche l'errore commesso, proprio perché cogliamo fino in fondo la portata del nostro peccato non quando l'abbiamo commesso, ma solo nel momento di maggior gioia, ovvero quando ci accorgiamo che la Grazia di Dio ce l'ha già perdonato.

So che non è un concetto semplicissimo da comprendere e soprattutto da accettare, perché parrebbe addirittura giustificare chi si comporta male o ha una vita non esemplare, il quale, tant'è, può dirsi felice, visto che comunque Dio lo ha già perdonato. Eppure, Gesù stesso ha espresso molto bene questo concetto, e lo ha fatto con quella disarmante e profonda semplicità che caratterizzava i suoi insegnamenti più popolari, ossia con le parabole, quei discorsi che tutti, anche i meno eruditi e gli analfabeti potevano cogliere. Anzi, come vedremo, sono proprio loro a poter cogliere la profondità delle sue parabole e dei suoi insegnamenti, che rimane invece nascosta ai dotti e ai sapienti, i quali continueranno a pensare a Dio come l'Essere Supremo da servire e riverire: ma poi, non è detto che servirlo e riverirlo significhi, alla fine, amarlo. Perché è vero che Dio ci vuole santi, come lui è santo: ma non ci vuole perfetti, perché è consapevole che, perfetti, non lo saremo mai. Ci vuole santi nel senso delle Beatitudini, ovvero “beati”, “felici”: felici benché peccatori e imperfetti, e addirittura felici “perché” peccatori e imperfetti.

Nei trentadue versetti che compongono il capitolo 15 del Vangelo di Luca, si concentrano in maniera mirabile tutti questi elementi della nostra fede, e tutta una serie di sentimenti e di espressioni ad essi corrispondenti che fanno delle tre parabole della misericordia un microcosmo teologico, anzi potremmo dire il microcosmo, il concentrato della teologia di Luca, che forse si può ulteriormente condensare in un concetto: la gioia del Vangelo. Non a caso, credo, papa Francesco ha fatto di questa espressione, “la gioia del Vangelo” (“Evangelii Gaudium”, in latino) oltre che il titolo della sua prima e principale Esortazione Apostolica, anche il motto del proprio stile e del modello di cristianesimo che ci sta dietro: nella vita di fede, nel rapporto con Dio, non c'è posto per sentimenti come il rancore, il risentimento, la rabbia, l'invidia, il giustizialismo, il mugugno, la gelosia. Tutte cose che ritroviamo soprattutto nell'ultima delle tre parabole di oggi, quella dei due fratelli, figli di un Padre folle d'amore per loro. Essere dei buoni cristiani, fondamentalmente, significa una sola cosa: essere felici, essere nella gioia, vivere con la gioia nel cuore, pur nella percezione delle nostre meschinità e dei nostri limiti umani e di fede. Anzi, le parabole di oggi ci raccontano la “bellezza della colpa”, la gioia di scoprirsi peccatori, non nel senso di gente che è contenta di fare il male, ma di gente che è felice perché amata, perdonata, abbracciata, sostenuta, nonostante e a partire dai propri peccati.

Del resto, che cosa c'è di più limpido di un cielo dopo una tempesta? Che cosa c'è di più gioioso di un raggio di sole dopo giorni di pioggia? Che cosa c'è di più bello, tra due persone che si vogliono bene, di un gesto d'amore ritrovato dopo momenti di incomprensione che, brevi o lunghi che siano, paiono sempre un'eternità? Che cosa c'è di più commovente dell'abbraccio di un padre verso un figlio ingrato e degenere che prova - consapevole di potere venire anche rifiutato - a tornare a casa sua dopo averne combinate di cotte e di crude? Che cosa c'è di più felice del volto di una donna che aveva smarrito i pochi soldi che le rimanevano per arrivare alla fine del mese, e li ritrova solo dopo aver messo a soqquadro la casa? Che cosa c'è di più consolante per un agnellino smarrito ritrovare la propria mamma grazie alla testardaggine di un pastore che pur di ritrovarlo non ci pensa due volte ad abbandonare un intero gregge?

Sapeste che bello, per noi, “pastori” del gregge di Dio, vedere gente contenta, contenta di essere credente, contenta di venire in chiesa, contenta di vedere gli altri contenti, contenta perché chi era lontano da Dio è tornato a riavvicinarsi, contenta di sapere che nonostante i suoi limiti Dio le vuole bene! E sapeste che tristezza vedere cristiani “perfetti”, “irreprensibili”, “giusti”, che non sgarrano mai con le cose di Dio e con i suoi precetti, che lo servono e lo riveriscono pensando che questo sia sufficiente per amarlo, che non perdono occasione di insegnare Dio agli altri ma che sono sempre infelici, scontenti, arrabbiati, invidiosi, maldicenti nei confronti di tutti, specialmente dei lontani, sempre critici verso un Dio che ama, accoglie e perdona!

Pensate che stia esagerando? Pensate che non esistano cristiani così? E allora, perché mai Gesù avrebbe avuto la necessità di narrare una parabola che è divenuta un mito, e che ha letteralmente fatto la storia del Cristianesimo?

 

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