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TESTO Il radicalismo della “non appartenenza” per portare la nostra croce

diac. Vito Calella

XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (08/09/2019)

Vangelo: Lc 14,25-33 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 14,25-33

In quel tempo, 25una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.

28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Gesù non è più nella casa del capo dei farisei, ma in strada ed ora si rivolge alle «molte folle che camminavano con lui» (Lc 14, 25). Le folle sono la categoria più superficiale di seguaci del Maestro. Simpatizzano per lui, ma non hanno ancora fatto una vera scelta di diventare suoi discepoli. Il cammino di Gesù lo sta portando a Gerusalemme e staremo a vedere quanta folla lo seguirà, quando sarà preso e crocifisso. Dove saranno le «molte folle che camminavano con lui»?

Al superficialismo delle molte folle che camminano con Gesù fa nettamente contrasto il radicalismo delle sue parole. Sono tre affermazioni forti, che si concludono tutte con l'espressione «non può essere mio discepolo» La prima e la terza sembrano avere qualcosa in comune, la seconda sembra essere quella centrale: «Chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 27)

La maniera radicale di parlare è tipica soprattutto nel Vangelo di Luca. Nella prima affermazione forte Luca usa il verbo «odiare» che è volutamente scioccante per chi ascolta. La scelta dell'evangelista serve per sottolineare la radicalità della sequela di Gesù. L'evangelista Matteo aveva inserito nel discorso missionario, rivolto ai discepoli, e non alle folle, parole simili di Gesù, ma dette in modo meno radicale di Luca, usando il verbo “amare/preferire” e non “odiare”: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10,37). In Luca si aumenta la dose: oltre al padre, alla madre e ai figli, Gesù chiede di “odiare” anche la moglie, i fratelli e le sorelle! Non va contro uno dei dieci comandamenti? Perché “odiare” i propri cari? Gesù, nel discorso della pianura, chiede addirittura di amare i propri nemici (Lc 6, 27), perché chiede di odiare tutti i membri della propria famiglia? Cosa significa “odiare”?

Il verbo “misein” (odiare) non deve essere interpretato come “l'avere sentimenti negativi di mancanza di rispetto e di avversione verso gli altri più prossimi alla nostra vita”, ma come “l'avere il cuore distaccato”. Si tratta di coltivare un profondo senso di “non appartenenza”: nessuna relazione ci appartiene, legando il nostro cuore, seppur questa relazione rimanga significativa e profonda, vitale e feconda, unitiva e portatrice di gioia. C'è una sola relazione verso la quale siamo chiamati a sentirci profondamente legati: «Noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,23).

Comincia ad emergere la chiamata radicale alla libertà del nostro cuore da ogni tipo di legame, sia familiare, sia materiale. Essere discepoli di Gesù significa scegliere lo stile di vita della “non appartenenza”, nulla ci appartiene, nessuna relazione umana, per quanto forte sia, non è nostra esclusiva proprietà. «Se uno non viene a me e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli i fratelli e le sorelle, e anche la sua stessa vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Nessun bene materiale ci appartiene completamente, anche se ce lo siamo conquistati con il nostro lavoro, con i nostri progetti, con le nostre strategie di carriera e di vittoria. La nostra casa, la nostra automobile, i nostri vestiti, il nostro posto nella società e nel mondo del lavoro, la nostra cultura, i nostri titoli accademici, i nostri libri pubblicati, le nostre cose che arredano la casa, i nostri soldi risparmiati o accumulati in banca: nulla di tutto ciò dovrebbe legare il nostro cuore: «Così dunque, chiunque di voi non rinuncia a tutto ciò che possiede, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33).Il “nulla ci appartiene” non è forse la condizione necessaria per sentire che “tutto è dono”, tutto è grazia? La seconda lettura parla dell'appartenenza dello schiavo Onesimo al suo padrone Filemone. Filemone era cristiano, Onesimo, suo schiavo, condivideva la stessa fede. In Cristo Gesù nulla più ci appartiene. Onesimo sia accolto dal suo padrone Filemone come fratello, non più come sua proprietà!

Si comincia a intravvedere il senso delle due parabole inserite tra la seconda e la terza esigenza di sequela. Se si rimane a livello di «folla» che cammina con Gesù, le due parabole insegnano la furbizia del vivere facendo bene i calcoli, quando si progetta qualcosa. Chi confida solo in se stesso, fa bene i calcoli, per dare compimento ai suoi progetti personali e comunitari, per non essere deriso dagli altri. Così ragiona la «folla» che cammina con Gesù. Fintanto che Gesù mi serve, lo seguo, ma senza rischiare. Il chiunque della folla calcola i pro e i contra del nostro essere discepolo del Maestro, e vive di compromessi. Se si passa al livello del «discepolo», le stesse due parabole assumono un significato più profondo del semplice calcolo di interesse. Le due parabole ci insegnano che spessissimo, nella nostra vita, sia quando vogliamo fare un buon progetto personale (simile al progetto della costruzione di una torre nella vigna), sia quando vogliamo conquistare un obiettivo comunitario, (simile al progetto di una guerra del re con il suo esercito), prendiamo coscienza che non ce la faremo mai da soli, solo con le nostre forze, solo con i nostri mezzi a disposizione, solo con l'energia positiva delle nostre relazioni familiari. Quanto più confidiamo nelle nostre forze e nelle nostre risorse personali, tanto più pretendiamo obiettivi più grandi di noi e viviamo permanentemente insoddisfatti. Quanto più pretendiamo raggiungere obiettivi comunitari con la logica umana della competizione e del successo, tanto più ci stressiamo di fronte a ostacoli più grandi di noi e alle sempre scarse forze che abbiamo a disposizione per vincere la lotta. Invece il distacco del nostro cuore dalle persone care e dalle cose è una resa, è un lasciare, un liberare il cuore dagli innumerevoli legami, per prendere! Ma per prendere cosa? Prendere la croce.

Essere discepoli di Gesù è un lasciare per prendere / portare. Tutto bisogna lasciare per prendere e portare una sola cosa: la propria croce: «Chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo». Tra le due “non appartenenze” (quella dai legami familiari e quella dalle cose materiali) c'è l'unica appartenenza da prendere e portare: la propria croce. Ma non da soli: camminando dietro a Gesù. Non da soli, ma confidando soprattutto nell'unica relazione su cui affidarsi: la relazione con Gesù morto, sepolto e risuscitato che ci dona il suo Santo Spirito.
Cosa vuol dire “portare la propria croce”?

È assumere, aggrapparsi alla propria fragilità e vulnerabilità: è un avere il coraggio di riconoscere la propria radicale povertà. Lo abbiamo pregato con il salmo: la nostra vita è come «un ritornare alla polvere», (Sal 89,3a) è come «l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e dissecca» (Sal 89,5b-6), «finiamo i nostri anni come un soffio» (Sal 89,9a). Lo abbiamo percepito anche nell'ascoltare il testo del libro della Sapienza: «i ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla grava la mente di molti pensieri» (Sap 9, 14-15).

È assumere, accogliere la fragilità degli altri che soffrono, con i quali condividiamo il cammino della loro croce. La loro sofferenza è anche la nostra sofferenza, le loro fatiche sono anche le nostre fatiche, la loro malattia è anche la nostra malattia. Quante cose si imparano condividendo la nostra vita con chi soffre più di noi!

È ospitare il male che imperversa contro di noi, perché croce è anche riconoscere che siamo vittime di ingiustizie. Nella nostra croce quotidiana pesano i condizionamenti di un sistema di egoismo e di male che appesantisce la nostra esistenza già provata dalle nostre e altrui fragilità.

Gesù ci invita a portare la nostra croce così come lui l'ha portata a Gerusalemme.

Solo nell'esperienza della sofferenza, quando compartecipiamo alla stessa morte di Gesù in croce, viviamo e comprendiamo il significato della resa totale delle nostre sicurezze e dei nostri legami affettivi per abbandonarci con tutto noi stessi, liberamente, all'iniziativa divina, al Padre, per mezzo del Figlio e nella comunione con lo Spirito Santo. Ciascuno di noi si aggrappa alla propria croce ma con i passi che seguono quelli di Gesù crocifisso a Gerusalemme. Ciò che «rende salda l'opera delle nostre mani», è la consegna della nostra fragilità e vulnerabilità e di tutte le nostre relazioni (con gli altri e con le cose del mondo), al Padre, per Cristo, con Cristo e in Cristo, perché si manifesti, mediante la nostra corporeità vivente l'irradiazione della gratuità dell'amore di Dio e noi possiamo incredibilmente contemplare e dire che “tutto è grazia”, “tutto è dono”, sia nel bene della nostra prosperità, sia nel male della sofferenza e della prova. Viviamo il soffio della nostra esistenza terrena chiedendo incessantemente al Signore Gesù, unico rifugio in cui perseverare e aggrapparci: «Saziaci al mattino con il tuo amore, esulteremo per tutti i nostri giorni. Rendici la gioia nei giorni di afflizione, per gli anni in cui abbiamo visto la sventura. Si manifesti ai tuoi servi la tua opera e la tua gloria ai nostri figli. Sia su di noi la dolcezza del Signore nostro Dio» (Sal 89, 14-17°)

 

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