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TESTO Commento su Gen 18,20-32; Sal 137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13

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XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (28/07/2019)

Vangelo: Gen 18,20-32; Sal 137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 11,1-13

1Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 2Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:

Padre,

sia santificato il tuo nome,

venga il tuo regno;

3dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,

4e perdona a noi i nostri peccati,

anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,

e non abbandonarci alla tentazione».

5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, 7e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.

9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 11Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? 12O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

«Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci oggi il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».

Ogni domenica - per chi ancora partecipa all'Eucaristia domenicale - si ripete uno dei momenti più intensi del memoriale: prima di scambiarci il segno della pace, un abbraccio o una stretta di mano, non augurio sterile, ma impegno formale e quotidiano, e di sederci a tavola per una convivialità gioiosa, perché è il Cristo stesso che spezza il pane per noi, ci rivolgiamo al Padre con le parole stesse suggerite da Gesù: «Padre nostro...».
Quante volte abbiamo pronunciato queste parole, fin da bambini! È forse la preghiera più conosciuta, sia da coloro che faticosamente cercano di giungere alla conoscenza di questo Padre, sia da coloro che, non senza un'intima sofferenza, non riescono ancora ad accedere a questa conoscenza.
E noi, che recitiamo così spesso questa preghiera, possiamo dire sinceramente di essere entrati nello spirito del «Padre nostro», più che nella reiterazione ossessiva di una formula? O non siamo invece continuamente ondeggianti tra un atteggiamento filiale nei confronti del padre di tutti, ed un atteggiamento «magico» e rituale, ma di fatto dimissionario di fronte al rapporto, sempre da scoprire, tra iniziativa di Dio ed in delegabile impegno nostro nella storia?
Come suggeriscono anche le altre letture di questa domenica, non si entra nella prospettiva della preghiera se non si è già entrati nella prospettiva del dialogo. Senza dialogo non esiste comunione. Quando si è innamorati si fa una grande fatica a non avere il pensiero costantemente fisso verso la persona amata, anche se questa è distante da noi: si scoprono occasioni concrete di incontro; si immagina la strada che l'amato o l'amata percorrono per poterci incontrare; si spia con ansia il suo arrivo... È un dialogo costante anche nell'assenza, perché il dialogo non si sostanzia certo in tante parole ricercate con cura: spesso un lungo silenzio è più denso di messaggi che non un fluire infinito di parole.
Così è anche con il Padre. Ne siamo davvero «innamorati»? Dialoghiamo, anche silenziosamente, o come Giobbe questioniamo (il riv ebraico) con Lui? Il nostro non è spesso, invece, un soliloquio - pur arricchito di parole «cristiane» - che rappresentano spesso la spia impietosa di una concezione individuale della salvezza? Una concezione che si risolve in una fuga dalla storia, nell'attesa deresponsabilizzata di quel Dio «tappabuchi» così funzionale alla nostra inerzia, e dal quale ci aspettiamo la soluzione dei problemi, secondo però il nostro punto di vista.

«Padre nostro...». Il Padre è nostro, cioè di tutti. Non mio, della mia Chiesa, del mio gruppo, del mio partito, della mia nazione, della mia etnia; non è la proiezione delle immagini che noi privilegiamo, nelle quali ci identifichiamo. Non è - non sembri irriguardoso - un Dio bianco, occidentale, moderato. Con buona pace di chi sventola nelle piazze simboli religiosi, e chiude porte e porti ai profughi da paesi in cui la vita impossibile perché ritiene che l'Italia sia solo degli italiani, e insulta e denuncia chi a questi fratelli cerca di dare una mano, Dio è il Padre di bianchi e di neri, di poveri e di ricchi, di chi sta annoiato ai bordi delle piscine di lusso e di chi annega nel Mediterraneo. Di tutti. Per questo la preghiera è dialogo costante con Lui; Lui di cui ci interessa il progetto (la volontà, il Regno, cioè la comunità, il nome): Lui che si interessa delle nostre necessità (il pane, il male, il perdono). La preghiera è dialogo su tutto questo; se è qualcosa di diverso è fatalmente destinata a trasformarsi in simulacro.
Se dunque siamo convinti, come afferma il teologo Yves Congar, che pregare «significa far sì che Dio sia Dio, non un'aggiunta al nostro braccio troppo corto», possiamo incominciare ad entrare nella prospettiva del «Padre nostro». Possiamo incominciare a sognare, anzi a progettare, un Regno di amore e di amicizia: un'amicizia spesso faticosa e di cui si ha talvolta ancora paura, perché è sempre eversiva, come tutti gli «stati nascenti». Possiamo incominciare a chiedere un pane di fraternità per tutti; e il perdono per tutti; e la liberazione dalle lusinghe della superbia e del potere.

Traccia per la revisione di vita
- Quando recitiamo il «Padre nostro» ci sentiamo in comunione con la parola «nostro» o non pensiamo il Padre come «mio», al mio servizio?
- Che cosa significa per noi «pregare»?
- Che cosa facciamo concretamente perché «oggi» tutti possano avere il pane necessario per vivere?

Luigi Ghia - Direttore della rivista “Famiglia Domani”

 

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