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TESTO Anima e cuore

don Alberto Brignoli  

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XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (14/07/2019)

Vangelo: Lc 10,25-37 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 10,25-37

In quel tempo, 25un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».

29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

Quante volte ci sarà capitato di dire, riferito a un'attività, a una persona, magari anche a noi stessi, che ci si è buttati “anima e corpo” nel fare qualcosa. Si dice, lo sappiamo bene, di una situazione nella quale ci s'immerge totalmente, a capofitto, senza risparmiarsi, investendo, in quell'attività, le nostre forze fisiche (il corpo) e le nostre energie mentali e spirituali (l'anima, appunto). Lo diciamo, ad esempio, di un progetto che portiamo avanti insistentemente, contro ogni avversità e ostacolo, spesso anche contro il parere di chi, volendoci bene e vedendo le cose “da fuori”, con maggior freddezza, ci vuol consigliare di stare attenti, di essere prudenti e accorti e di non agire con eccessiva impulsività onde evitare, poi, di pentirci di quanto abbiamo fatto. Lo stesso, dicasi della vita affettiva, quando ci buttiamo “anima e corpo” in una storia importante, a volte senza calcolarne le conseguenze forse perché travolti dalla passione nel senso più bello del termine, ovvero di qualcosa che ci appassiona, che ci prende la vita. Può far, male, a volte: ma in generale, buttarsi “anima e corpo” è una cosa molto positiva, perché ci dice quanta passione siamo e quanta passione abbiamo, in tutto ciò che riguarda la nostra vita. È meglio leccarsi le ferite e pentirsi per sbagli fatti in conseguenza al nostro esserci buttati “anima e corpo”, che avere rimorsi duraturi per non aver seguito le nostre passioni e buttato via occasioni di vivere esperienze nuove. Meglio buttarsi anima e corpo con il rischio di pentirsi, che lasciarsi tormentare dal pensiero di non averci provato. Meglio pentirsi di aver fatto qualcosa, che avere il rimorso di non averlo fatto.

L'antico Israele parlava, invece che di “anima e corpo”, di “anima e cuore”, per indicare qualcosa da vivere fino in fondo, con tutto se stessi. E questo non perché il corpo fosse disprezzato, ma perché anima e cuore, nella concezione biblica, stanno a indicare due facoltà che, prese insieme, definiscono l'uomo nella sua totalità. L'anima, in particolare, è il luogo della volontà di seguire Dio; il cuore, a differenza della nostra visione occidentale, non è il luogo dei sentimenti, ma della ragione, quello che noi assegniamo alla testa, per intenderci. Anima e cuore, allora, sono simbolo dell'uomo che comprende ciò che per la sua vita è fondamentale e decide di seguirlo liberamente, fino in fondo, costi quel che costi. In particolare, come abbiamo ascoltato nella lettura di Deuteronomio, per il pio ebreo è fondamentale - e quindi da ascoltare e seguire con tutta l'anima e con tutto il cuore - il riferimento alla Legge: una Legge che non sta nelle profondità del mare o nelle altezze del cielo, ma che è vicina alla vita dell'uomo, al suo quotidiano, al punto da poter essere praticata ogni giorno, nella concretezza e nella semplicità della quotidianità. Niente, quindi, di irraggiungibile, come spesso diciamo dei comandamenti della fede o delle cose che, in generale, riguardano Dio, ma qualcosa di molto concreto e di vicino a noi, al punto che seguirlo “con tutto il cuore e con tutta l'anima” non è affatto impossibile.

Tutto qui? Sufficiente questo, per salvarsi? Basta questo per ereditare la vita eterna? A quanto pare sì. Il dottore della Legge che nel Vangelo fa questa domanda a Gesù, in pratica si risponde da solo: la Legge di Mosè mi chiede di amare Dio “con tutto il cuore e con tutta l'anima” (ma sì, aggiungiamoci anche “con tutta la forza e con tutta la mente”, per non farci mancare nulla), per cui - dato che io sono uno che la Legge la conosce bene perché la insegno agli altri - io sono già a pochi passi dalla vita eterna. Sennonché, la Legge di Dio mi chiede di amare anche il prossimo, quanto amo me stesso e la mia vita: e allora, voglio che il Maestro che ho davanti mi dica bene chi è il mio prossimo, per evitare di incorrere in errate interpretazioni della Legge di Dio. Chi mi è prossimo? Chi è prossimo a me quanto lo è Dio? Chi mi sta accanto quanto lui? Chi è stato sin da bambino (e continua a esserlo) il punto di riferimento della mia vita, se non la Legge di Dio, seguendo la quale non posso che ereditare la vita eterna?

Quel dottore della Legge, che voleva “giustificarsi”, ossia mostrarsi come “giusto”, come uno che la sa lunga sulle cose di Dio rispetto a un semplice rabbino come Gesù, non fa altro che tirarsi la zappa sui piedi. Perché Gesù approfitta di quella sua domanda provocatoria ed espressa con tono di sfida (“E chi sarebbe, questo prossimo?”) per far comprendere a lui e agli uomini santi e alle pie donne di ogni tempo e di ogni luogo, che la vita eterna non si ottiene seguendo a capofitto, alla lettera, “anima e cuore”, i precetti della nostra religione e i comandamenti che la regolano. O quantomeno, non è sufficiente. Perché i precetti e i comandamenti, osservati “anima e cuore”, magari con un pizzico di integralismo che a qualcuno piace tanto, a volte portano a fare cose impensabili, nelle quali Dio rischia veramente di essere assente.

Perché in nome di un precetto che chiede loro di conservarsi puri e irreprensibili davanti a Dio dopo aver celebrato il suo culto in Gerusalemme, e quindi di non contaminarsi con il sangue di un ferito, un sacerdote e un levita in viaggio verso Gerico si rifiutano di assistere un uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada da un gruppo di briganti che lo hanno assaltato. Del resto, si erano appena guadagnati la vita eterna celebrando il culto nel Tempio di Gerusalemme, perché contaminarsi per dover poi tornare a celebrare il culto?

Tradotto nella vita dei benpensanti uomini e donne di fede di ogni tempo, ligi al proprio dovere di credenti, convinti di trovare Dio nell'assolvimento dei precetti della loro religione: perché mai devo confondere la vita di fede con i problemi reali e concreti della vita di ogni giorno, con i drammi dell'umanità, con le sofferenze dei fratelli, dove Dio non mi si rivela in maniera evidente ed esplicita, quando invece andando a messa ogni domenica e facendo la comunione assiduamente, ricevo Dio direttamente dentro di me, e con questo sono a posto?

La risposta è nella parabola di oggi, forse la più famosa e fastidiosa del Vangelo di Luca: perché, nonostante tu ti senta un uomo e una donna a posto con la tua vita di fede e con un Dio che dici di amare con tutto il cuore e con tutta l'anima, anche tu sei un povero malcapitato che percorre ogni giorno la strada che dalla santità di Gerusalemme porta alla perversione di Gerico, e allora non sei così santo come credi di essere, e quel male che anche tu compi, prima o poi ti schiaccia, ti tramortisce, ti fa a pezzi, e se sulla tua strada in quel momento passano due tuoi amici di fede che come te si sentono a posto nella vita di fede, scordatelo che ti raccoglieranno e ti assisteranno! Anzi, forse aspettano solo che tu cada a terra tramortito per voltarti le spalle, per fare a finta che tu non esista, per dirti “ma io non lo sapevo che stavi male”!

Per fortuna che la Legge di Dio, quella scritta nel nostro cuore e collocata sulle nostre labbra, è molto di più di una semplice messa domenicale, e ci permette di ereditare la vita eterna facendoci prossimi a ogni uomo e ogni donna piagati nel corpo e nello spirito, al di là delle poche o tante messe a cui avremo partecipato. Il Samaritano del Vangelo era un “senza Dio”, uno ritenuto privo di fede, uno di quelli che a messa non ci andava mai, o che se ci andava non poteva fare la comunione, e magari tutti lo guardavano male e lo giudicavano per questo: eppure, ha ereditato la vita eterna facendo una sola cosa, osservando un solo precetto delle Legge di Dio, quello che tutti, ma veramente tutti, siamo in grado di osservare, ossia avere compassione.

In una parola sola, amare. Anima e cuore. A capofitto. Senza troppi calcoli. Con passione. Che è la cosa più bella lasciataci dal Dio di Gesù Cristo.

 

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