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TESTO Imperfetto: il tempo preferito da Gesù

don Alberto Brignoli  

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno C) (23/06/2019)

Vangelo: Lc 9,11-17 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 9,11-17

11Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.

12Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». 13Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». 14C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». 15Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. 16Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. 17Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

L'uso dei tempi dei verbi, in grammatica, non è poi così indifferente: e lo sanno bene gli studenti che in questi giorni si sono cimentati con le prove scritte agli esami di maturità o di licenza media. E non parlo solamente di tempi tra di loro evidentemente differenti (tutti sanno la differenza tra presente e futuro), ma anche e soprattutto di tempi verbali che riguardano tutti lo stesso lasso di tempo, concretamente il passato. Non è la stessa cosa dire: “Io sono andato a Milano”, “Io andai a Milano”, e “Io andavo a Milano”, ovvero usare il passato prossimo, il passato remoto e l'imperfetto in maniera indiscriminata. Lungo la storia del nostro paese, la distinzione tra passato prossimo e passato remoto si è identificata anche con una questione territoriale, civica, quasi politica.

Qui al settentrione preferiamo il passato prossimo, e ci viene quasi da sorridere se uno usa il passato remoto, perché certamente pensiamo che venga dal Sud del nostro paese; dove, peraltro, usano i tempi dei verbi in maniera più corretta, sostenendo che il nostro modo di parlare, qui al Nord, confonde le cose, per cui “io sono andato”, potrebbe far pensare che “andato” sia il nostro nome proprio...
Ricapitolando, giusto per essere grammaticalmente corretti:

• Il passato prossimo si utilizza per indicare un fatto che ha avuto luogo in un passato recente, magari in un periodo di tempo che non si è ancora concluso (e non, come facciamo noi al Nord, parlando di decine di anni fa...);

• Il passato remoto si usa per indicare un fatto avvenuto e concluso nel passato, soprattutto se questo fatto è avvenuto in un periodo di tempo passato da parecchio, del tutto staccato dal presente, senza alcun legame con esso (e non per ogni situazione, anche quelle di poche ore prima, come magari si è soliti dire al Sud);

• L'imperfetto, invece, si utilizza per indicare azioni abitudinarie del passato, ripetitive, durature nel tempo, talmente durature che possono continuare anche nel presente. Un passato, quindi, che sembrerebbe non terminare mai. Anzi, i cui effetti si sentono anche nel presente, non foss'altro da riportare alla mente e far rivivere.

Cosa c'entra tutto questo con la Solennità del Corpus Domini? Forse nulla. Però, allora, l'evangelista Luca ci deve spiegare come mai, nel Vangelo di oggi, per descrivere il fatto centrale (la moltiplicazione dei pani e dei pesci) utilizza due tempi verbali diversi, pur trattandosi di un'azione puntuale compiuta da Gesù in un determinato periodo, e quindi da considerarsi eseguita e conclusa, e soprattutto conclusa da tempo, visto che Luca scrive questo testo almeno cinquant'anni dopo il fatto storico: una narrazione, quindi, da passato remoto. Non dimentichiamo che Luca era un medico, un letterato; senza dubbio, era il più culturalmente preparato dei quattro evangelisti, per cui ritengo difficile che abbia commesso uno strafalcione grammaticale - che peraltro i filologi avrebbero potuto correggere - quando scrive la narrazione di ciò che avvenne sulle rive del lago di Galilea, quel giorno: “Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”.

Perché Luca scrive che Gesù “fece” tutti questi gesti, ma quando subito dopo parla della distribuzione del pane e dei pesci, ci dice che Gesù li “dava” e non li “diede”? Perché i gestì compiuti da Gesù indicano qualcosa di compiuto e di concluso (e quindi, giustamente, si usa il passato remoto), mentre i gesti che egli chiede di compiere ai discepoli vuole che siano fatti attraverso un tempo “imperfetto”, cioè abitudinario, ripetitivo, duraturo nel tempo, al punto da sembrare che non termini mai? Mi piace pensare che, forse, sia proprio per questo: perché il tempo dei discepoli, il tempo della Chiesa, è il nostro tempo, è il tempo dei credenti di ogni tempo, e non si conclude, e continua - a partire dal passato - a far sentire i suoi effetti nel presente.

Perché Gesù moltiplicò i pani e i pesci quella volta, e forse un'altra in più oltre a quella; Gesù istituì l'Eucarestia una volta sola, nell'Ultima Cena, però volle che quel gesto fosse continuamente compiuto dai discepoli “in memoria di me”, così come “dava” continuamente quei pani e quei pesci ai discepoli perché fossero distribuiti alla folla non solo in quella sera sulle rive del lago di Galilea. Non si trattava, infatti, di un gesto compiuto e perfetto, ma di qualcosa da compiersi e quindi ancora “imperfetto”, “imperfetto” come il verbo usato da Luca e che vuole cha anche noi continuiamo a usare. Perché Gesù celebrò l'Eucarestia una sola volta, per sempre: ma volle che fosse celebrata continuamente in memoria di lui perché noi non smettessimo di distribuire il pane ai nostri fratelli.

E non si tratta di Pane Eucaristico solamente: si tratta di “pani e pesci” che rappresentano il cibo quotidiano, il mangiare di Dio con noi, il cibo della mensa e della tavola condiviso nelle nostre famiglie, nelle case di ogni uomo e di ogni donna, in ogni epoca e in ogni luogo. Ed è un lavoro “imperfetto”, inconcluso, che non finisce mai, perché avremo sempre una porzione di umanità - e purtroppo, oggi, ancora grande - affamata di pane quotidiano, desiderosa di sfamarsi di ciò che invece il mondo spesso le nega, perché incapace di condividere.

“Condividere”: questa è la chiave di volta di tutta la vicenda. Questa è la soluzione di quello strafalcione grammaticale di Luca, che “fece fare” i gesti eucaristici sul pane e sui pesci a Gesù (e il pesce, non dimentichiamo, è Cristo stesso), il quale però, poi, “dava” ai discepoli il pane da distribuire alla folla, perché questa condivisione di pane con l'umanità affamata non smetta mai. In memoria dell'Eucarestia; nel nome di Gesù; nel nome di quella comunione eucaristica che magari facciamo devotamente tutte le domeniche (e anche più volte la settimana) e che proprio per questo ci impedisce di dimenticarci dei nostri fratelli che non hanno pane quotidiano da mettere sotto i denti.

Facciamo la comunione, allora, tutte le volte che vogliamo: ma non dimentichiamoci che non è sufficiente per sentirci in comunione con un Maestro che vuole che siamo “noi stessi a dare da mangiare” all'umanità affamata.

 

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