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TESTO Guardare con stupore un filo d'erba...

don Angelo Casati  

II domenica dopo Pentecoste (Anno C) (23/06/2019)

Vangelo: Mt 6,25-33 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 6,25-33

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.

Forse basterebbe un brano come questo per farci convinti che Gesù era un poeta. Forse potremmo dire che i poeti sono quelli che per fessure, anche minime, scorgono l'oltre che abita le cose. Non sono fuori dalle cose, danno parole alle cose, o - se volete - alla vita. Alle cose, alla vita, perché né le cose, né la vita, rimangano inghiottite dal vuoto, come ammutolite. Leonard Cohen ha scritto. "C'è una crepa in ogni cosa. E' da lì che entra la luce". Chissà quante volte lui, Gesù, sarà rimasto come incantato guardando gli uccelli del cielo, i loro voli, il loro accucciarsi nei nidi; o guardando i gigli del campo e ogni volta a chiedersi da dove mai venisse l'incanto di quei colori; o anche l'erba. Lui parla dell'erba. E chi oggi - sì, forse qualcuno - ti direbbe quasi estasiato: "Ho visto un prato, sai, fili d'era sottili, in appoggio l'uno all'altro, accarezzati dal vento".

E per il suo raccontare - racconto di cose importanti - lui andava per immagini. Le immagini non solo arrivano a tutti, ma accendono un'infinità di significati, mettono in movimento. Allora capisco perché i nostri documenti e le nostre omelie sono pesanti o astruse, perché usano il teologhese e non le immagini. Ma quando mai - mi vado chiedendo - abbiamo osato questo dirottamento? Dalle immagini, dalla poesia, alle elucubrazioni, anche dotte, ma inavvicinabili? Perché scostarci dal linguaggio di Gesù? Leggi e ti accorgi che vita e poesia per lui andavano insieme. Come in questo nostro brano che tocca il senso della vita. Il senso della vita e la cura di Dio. E racconta di uccelli e di gigli del campo, racconta dell'erba dei prati. Lui dietro legge lo sguardo e la cura di Dio per noi...

Vorrei aggiungere, ripensando al Gesù dei vangeli, che accadevano cose in chi lo ascoltava, Poesia - voi lo sapete - viene dal greco, la radice è "compiere", non sono parole buttate al vento. Producono, mettono in movimento. E mi si apre un pensiero: sul "produrre". Non ci dovrebbe dire qualcosa il fatto che anticamente abbiano dato nome di "produzione" alla poesia? Oggi - e non voglio criminalizzare il nostro tempo - oggi, posso sbagliare, la parola "produzione" è come impazzita. E non mette in movimento nel senso positivo che abbiano usato prima, cioè nel senso di destare emozioni sogni immaginazioni, invenzioni. La produzione non mette in movimento, mette in agitazione, in corsa frenetica, in cecità: Al tuo fianco, infatti, possono esserci persone, cose, natura, può esserci Dio. Ma tu non sosti, tu corri dietro il mito, la legge, della produzione.

Che non ti garantisce di certo poesia, se mai carriera. Gesù - l'abbiamo sentito - mette in guardia da questa ossessione. Non censura di certo la ricerca del pane quotidiano o di un vestito, ma l'ossessione dell'accumulo sì. Una amica, che è anche poeta, Chandra Livia Candiani, in un suo libro sul silenzio - e già il titolo è significativo: "Il silenzio è cosa viva", invita a riflettere su un'espressione che usiamo spesso "farcela": "Dobbiamo farcela" - anche qui, notate, il verbo "fare" - e dice: "E' il concetto di "farcela" che va riscritto in noi, non più la conquista, la sfida, la crescita all'infinito, ma il sintonizzarsi, l'ascolto umile e attento degli insegnamenti che bussano dai fili d'erba e negli astri, nelle zanzare e negli elefanti, nelle creature che stano scomparendo e in tutto quello che resta, nella responsabilità di restare svegli e sensibili in questo immenso non sapere" (p. 99).

Produzione, farcela. Il risultato un correre, su cui a volte dovremmo sostare e mettere domanda. Un mio amico prete. Marco Campedelli, proprio a proposito di queste parole di Gesù, commentava: "E noi che invece continuiamo a correre. E Gesù a dire: "Guardate...osservate". Fermatevi. "Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?... Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro". Fate parlare le cose della vita e dietro ad esse in trasparenza potrete cogliere il volto di un Padre, quello che abbiamo sì nei cieli, ma che si prende cura di noi sulla terra". Un Padre!

Certo, non vogliamo mettere sotto accusa ogni "correre": ci sono corse buone, e ci sono anche corse doverose: anche un'autoambulanza corre e chiede strada nella città. Sotto accusa è un correre impazzito, di sé e delle cose. Che diventa - dobbiamo riconoscerlo - una ferita, una ferita mortale, per noi donne e uomini del nostro tempo. Perché ci ruba l'anima, ci ruba il silenzio, ci ruba la poesia, ci rende ciechi. Io la ritengo un segno dei tempi e anche una grazia questa: che molti giovani di oggi scendano in piazza per la salvaguardia del creato. Un impazzimento del mito di una "produzione a qualsiasi costo" sta sconvolgendo la natura e ne sta depredando il dono per le generazioni future. I giovani, che avvertono il pericolo, cercano un altro modello. E noi dovremmo benedire il loro entusiasmo, tutta la passione che mettono nella loro lotta. E' come un risveglio.

Ci eravamo addormentati. O ci avevano addormentati con il mito di una crescita all'infinito, ma cieca, cieca sulle conseguenze per l'oggi, e soprattutto per il futuro dei nostri figli, delle generazioni che hanno diritto a una eredità e non vanno stoltamente depredate. Perdonate - forse non è questo il contesto - ma io vorrei riferire anche a questi ultimi pensieri le parola dell'apostolo Paolo ai cristiani di Roma, quando scrive di questa attesa, di questa speranza che deve abitare in noi e parla di una creazione che va liberata dalla schiavitù, e noi con lei. E usa la parola "doglie", doglie di un parto, e scrive: "Sappiamo che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi". Penso che dobbiamo svegliarci, risvegliarci, perché non sia troppo tardi.

E che le religioni mettano i loro insegnamenti preziosi a custodia e cura della natura. Gli occhi di Gesù insegnano. Ma anche altre tradizioni antiche. In una strofa di un testo buddista, tradotto da Chandra, ho trovato queste parole con cui vorrei chiudere:

Come con un mazzo di fiori si possono intrecciare ghirlande, con questa nostra esistenza umana possiamo fare ghirlande di nobili azioni.
* Dhammapada* strofa 53

 

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