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TESTO Paraclito di nome, Pace di cognome

don Alberto Brignoli  

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VI Domenica di Pasqua (Anno C) (26/05/2019)

Vangelo: Gv 14,23-29 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 14,23-29

23Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.

25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.

27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. 28Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.

Chi mai di noi può dire di non avere paura, o meglio, di non avere “paure”? Non parlo delle “fobie”, che spesso, in una società frenetica come la nostra, assumono dimensioni davvero maniacali, in parecchi soggetti. Parlo, invece, di quelle piccole o grandi paure che attanagliano il nostro animo ogni giorno, a volte in maniera evidente, a volte in maniera subdola o inconscia, ma comunque sempre ben presenti.

Possono essere piccole o grandi paure, dicevo: ma pur sempre paure sono. Quelle piccole, si risolvono con poco: la paura di non riuscire a terminare un lavoro nei tempi previsti, la paura di arrivare tardi a un appuntamento, la paura di non aver detto la cosa giusta al momento giusto, la paura di non aver fatto bene una cosa, la paura di aver offeso qualcuno, e via dicendo. Ci sono, però, quelle paure che ti rimangono dentro, perché sono pesanti, e anche se non emergono quotidianamente proprio perché pesanti, tuttavia - come dicevo prima - dimorano nel nostro inconscio e ci tengono inchiodati a terra, come un'enorme àncora che inchioda una nave al fondale.

Pensiamo, ad esempio, alla paura del futuro, che attanaglia la vita di un giovane nel momento in cui sta iniziando a costruire la propria vita professionalmente, abitativamente e affettivamente. Oppure alla paura del ripresentarsi della malattia in una persona colpita da un male che pensava di aver sconfitto. O ancora, alla paura che i nostri figli facciano scelte sbagliate e prendano strade inappropriate, con la consapevolezza che da parte nostra non possiamo fare nulla.

Per giungere alle due grandi paure esistenziali: la solitudine e la morte, di fronte alle quali c'è ben poco da fare e ben poco da dire, perché nemmeno il più “spavaldo” dei gradessi può dire di non avere paura di fronte a queste due immateriali ma concretissime realtà della vita dell'uomo, salvo che uno si senta più grande dello stesso Figlio di Dio, il quale ha dimostrato, come ogni uomo “vero”, di aver paura di entrambe. E della morte, in realtà, abbiamo paura, sì, ma tutto sommato ce la facciamo ancora a venirne fuori. Perché forse la nostra morte non ci fa così paura: come diceva Epicuro, “quando ci siamo noi, non c'è lei, e quando c'è lei, non ci siamo noi”. E difatti, la morte di cui abbiamo paura non è la nostra, bensì quella degli altri, quella che ci viene sbattuta in faccia ogni giorno in maniera drammatica e macabra dai mezzi di comunicazione sociale, ma anche e soprattutto la morte delle persone che amiamo; la quale, ci fa paura proprio per via dell'altra grande paura esistenziale dalla quale non si sfugge, ovvero la solitudine.

La paura della morte delle persone care, in realtà, è motivata dalla paura che esse ci possano lasciare da soli: una persona cara che viene meno, ci manca, e in alcuni casi - non è un gioco di parole o una frase fatta - ci manca “da morire”. Così come ci può mancare “da morire” una persona che parte per un viaggio lontano, magari senza sapere quando la si potrà rivedere, perché quella parte di noi attaccata a lei viene strappata, come si strappa da una parete qualcosa attaccato con dell'adesivo, e la parete rimane con un segno nell'intonaco. Certo, anche le ferite più profonde, alla fine, si rimarginano, anche quella del dolore della morte. Ma per rimarginare la ferita della solitudine, e la paura che ne consegue, ci vuole tempo, tanto tempo, e forse ci vuole anche qualche rimedio, qualche farmaco che aiuti a cicatrizzare, sapendo che comunque la tua vita non sarà più la stessa, perché le cicatrici rimangono, e a volte fanno male per parecchio tempo, se non per sempre.

Come ne usciamo? Come possiamo pensare che il nostro cuore “non sia turbato” e che “non abbiamo timore”, come dice il Maestro nel Vangelo di oggi? Come osa parlarci lui di un cuore “imperturbabile” e privo di timore? Lui, che di fronte alla sua morte, pur sapendo che Dio suo Padre non l'avrebbe mai abbandonato e che presto l'avrebbe risuscitato dai morti, grida la sua solitudine e (testuali parole) rimprovera a Dio di “averlo abbandonato”?

Esiste, allora, un rimedio alla solitudine? Esiste qualcosa che non ci faccia temere di rimanere da soli? Esiste una ricetta che, di fronte alla morte, alla malattia, al fallimento di una vita, non ci faccia sentire soli anche qualora tutti quanti decidessero di lasciarci lì, da soli, a marcire nel nostro nulla?

Una ricetta, non saprei; una soluzione, neppure quella saprei dire se esista o meno. Quello che sì, esiste, è un dono; qualcosa che ci viene donato in maniera gratuita nel momento in cui ci sentiamo o siamo realmente soli. Anzi, in realtà si tratta di due doni, ma che forse alla fine sono ancora un unico grande dono. Un dono che ha un nome e un cognome: ha per nome Paraclito e per cognome Pace, e si tratta della stessa cosa, un dono di Dio Padre, portatoci a casa, a domicilio, da Gesù.

“Vi lascio la pace, vi do la mia pace”: non è un augurio, quello di Gesù. Non è come “La pace sia con voi” della messa: quello è un augurio che il celebrante ci rivolge. Ma Gesù non fa auguri: fa regali, direttamente. Perché possiamo sentirci meno soli, ci regala la sua pace: e non è la pace che ci viene dalle cose del mondo. Quelle non danno pace, quelle narcotizzano e creano tormentano interiore. Ci dà pace il fatto di sentirci amati, apprezzati, valorizzati, vezzeggiati, coccolati, abbracciati dall'amore del Padre, come sentiamo pace quando una persona che ci vuole bene ci protegge con un abbraccio e ci fa sentire che, in fondo, non siamo mai così lontani da lei come sembra.

E la pace, in fondo, non è altro che il senso di protezione e di difesa che ci viene da chi fa di tutto per prevenire la nostra solitudine, dandoci una ricarica di vita ogni volta che lo chiamiamo, che lo invochiamo perché venga qua, al nostro fianco, “chiamato presso di noi” - in greco “Paraclito” - a farci compagnia nel momento in cui il nostro cuore viene turbato dalle aritmie della solitudine o dalle tachicardie di una vita frenetica, agitata, ma spesso, troppo spesso, vuota.

Ci piacerebbe sapere cosa dovremmo fare, tuttavia, per ricevere questo regalo di Dio recapitatoci da Gesù. Che cosa dobbiamo fare, per far posto alla pace del Paraclito, al Padre che ce li invia, e al Figlio che ce li recapita, visto che tutti e tre vogliono venire e dimorare un po' di tempo da noi? C'è qualcosa da preparare, visto che siamo espertissimi nell'organizzare eventi?

Sì, una cosa da fare c'è, per ottenere il dono della pace interiore, che in realtà altro non è se non Dio in persona: bisogna amare. Sempre, instancabilmente, contro ogni disperato senso di solitudine e di morte che ci stringe il cuore. Amare. Punto. Tant'è, lo sappiamo bene, ormai: “Più forte della morte, è l'amore”.
Che senso di pace, quando si è amati!

 

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