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TESTO Un vuoto di tenerezza...

don Angelo Casati  

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IV domenica T. Pasqua (Anno C) (12/05/2019)

Vangelo: Gv 15,9-17 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.

Non so come voi stiate uscendo dalle letture che ora abbiamo ascoltato. Non so. Io esco - ma immagino anche voi - come da un'immersione nella tenerezza dei sentimenti. Penso alla casa del diacono Filippo: allora ci si riuniva nelle case. Vi immaginate la differenza tra casa e luogo pubblico? Dunque siamo nella casa del diacono Filippo e vengono ricordate le sue quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia.

Pensate, donne! E per di più con il dono della profezia! E la casa di Filippo si accende ai nostri occhi. Si accende di emozioni: arriva Agabo, anche lui un profeta, le sue parole vedono un futuro di arresti per Paolo. Nella casa si dà libero sfogo alla voglia di proteggerlo, si dà libero sfogo al pianto, scene da spezzare il cuore. Paolo dirà: "Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore?". E penso alle parole della lettera ai Filippesi, dove l'apostolo scrive: "Dio mi è testimone del vivo desiderio che io nutro per voi nell'amore per Cristo".

Capite, una comunità dove si nutre desiderio dell'altro, dell'altra, a chiederlo è il nome di Gesù. Gesù ci chiede di coltivare desideri dell'altro, dell'altra. E casa del desiderio - casa del turbamento e del desiderio - casa della tristezza per un distacco imminente è la stanza al piano superiore a Gerusalemme dove la cena, l'ultima del Signore, è colma di commozione, di parole che hanno il suono di un testamento, dove in primo piano, la più ricorrente, è la parola "amore" e il verbo "amare" e ci sembra di sentire una vibrazione di commozione nel tono della voce di Gesù, in vigilia di lasciare i suoi discepoli, il tono di una tenerezza infinita.

Ecco, io vorrei oggi lasciarmi prendere da questa emozione e riflettere con voi sulla bellezza di questo dilagare di sentimenti nelle comunità delle origini. Un volersi bene - lasciatemi dire - visibile, non impalpabile. Che diventa commozione, pianto, baciarsi, abbracciarsi. Vi devo confessare che a volte mi prende come la sensazione che sia avvenuto un allontanamento da questo clima di vibrazioni del cuore e dello spirito che pulsava nelle comunità degli inizi. Leggi le parole di Gesù, parla di intimità. Dice: "Rimanete nel mio amore". Come a dire "Trovate casa nel mio amore, fatene dimora".

Sono le parole che si dicono le persone che si amano, che si vogliono bene: "Guarda che tu hai una dimora in me". E' avere l'uno la dimora nell'altro. È la cosa più preziosa, la più dolce, quella che conta. Perché anche se anche abbiamo dimora in una casa, ma poi uno non ha dimora nell'altro, se non ci siamo con il cuore, è lo svuotamento della casa, è una casa che non è casa. Rimanere nell'amore. "Tu hai casa in me" dice il Signore "sei nei miei pensieri, io ho cura di te. Non sarai mai un estraneo". E Gesù lo dice ai discepoli anche ora che se ne sta andando.

Come a dire: "Neppure la lontananza fisica potrà cancellare la dimora che tu hai in me". Se ne stava andando e lui voleva dire che questo sarebbe dovuto durare nel tempo, in sua assenza: l'amarsi. Voi mi capite, lui voleva questo in coloro che avrebbero seguito la sua via. Noi poi abbiamo inventato chissà che cos'altro: una religione di prescrizioni, di dogmi, ma deprivata dell'anima. Era questo che lui voleva: il regno di Dio cui aveva dato inizio doveva brillare per questo. Perché in questo sta la gioia - dice -. E lui per noi vuole una religione di gioia, sì di gioia - l'abbiamo sentito - e che la gioia sia piena. Ora pensate quanti comandamenti abbiamo messo davanti a questo, dell'amarsi.

Sentite l'autorevolezza, la limpidezza: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi". Che siamo riconosciuti suoi discepoli dal fatto che ci si vuol bene, dalla tenerezza. E ha anche aggiunto: "Io non vi chiamo più servi". Ne consegue che "amarci come lui ci ha amati" vuol dire allontanare dai nostri rapporti quotidiani qualsiasi sensazione di dominio, qualsiasi atteggiamento servile, l'ombra del non detto. Gesù afferma: "Tutto ciò che ho udito da Padre mio l'ho fatto conoscere a voi".

E quindi non uno che sa e l'altro che è tenuto allo scuro, vivere la trasparenza dei rapporti, come l'ha vissuta Gesù con il Padre e con noi. Ritorno alla domanda: come mai questa, che è la vena più preziosa dell'evangelo, se stiamo alle parole di Gesù, si è come stemperata nel tempo e da comunità siamo diventati troppo spesso istituzione, perdendo il calore degli affetti, la vibrazione dei sentimenti, quasi che diventare anaffettivi fosse una conquista, una virtù, e non una perdita in vangelo?

Qualche anno fa sulla rivista Jesus, Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, scriveva: "Anaffettività" come incapacità di entrare nella sensibilità dell'altro e degli altri: questa secondo me è la più estesa e profonda patologia che oggi ammorba il corpo ecclesiale. È vero che questa anaffettività è un male presente in tutta la società, perché in essa da qualche decennio si è insinuata l'indifferenza che domina e pervade tutti gli spazi della vita sociale.

Ma nella chiesa l'anaffettività è patita maggiormente, forse perché i cristiani, nella loro dimenticanza. non avvertono che il loro vissuto contraddice fortemente il comandamento nuovo, ultimo e definitivo, prima del quale e dopo il quale non ve ne sono altri: il comandamento dell'amore reciproco (cf. Gv 13,34; 15,12), amore che nelle prime comunità cristiane si esprimeva addirittura con un bacio sulla bocca al termine delle assemblee eucaristiche (cf. Rm 16,16; 1Cor 16,20, ecc.)".

Ebbene dobbiamo essere grati alle letture che oggi abbiamo ascoltato che ci hanno messo in guardia da una patologia che ammorba l'aria che respiriamo, ma, insieme, ci hanno aperto spiragli, fessure, su parole e gesti che conducono a vivere rapporti dove negli occhi dell'altro dell'altra leggi il bene che ti si vuole, leggi la conferma che veramente tu non sei un estraneo, leggi che realmente tu dimori in qualcuno. Una affettività che, contrariamente a quanto può pensare qualcuno, non è scusa per rintanarsi, ma è spinta ad andare e a portare frutto.

E' scritto: "Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto".

 

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