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TESTO Il navigatore satellitare

padre Gian Franco Scarpitta  

IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C) (31/03/2019)

Vangelo: Lc 15,1-3.11-32 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 15,1-3.11-32

1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

“Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”, esclamano i farisei esterrefatti notando che una grande moltitudine di malfattori si era accostata volentieri a Gesù per ascoltarlo e che lui volentieri familiarizzava con loro. Nella mentalità farisaica, raffinata e perbenista, un giusto non poteva contaminarsi con i peccatori. Doveva salvaguardarsi e mantenere le distanze.

Per tutta risposta Gesù enumera una serie di parabole allusive allo “smarrimento” e al ritrovamento e lascia intendere che nei confronti dell'uomo Dio è provvido nel cercarlo ogni qual volta si smarrisce e questo non nonostante l'uomo sia peccatore, ma appunto perché è peccatore. Il vero avversario di Dio è il peccato, ma non la persona che pecca. Questa è sempre preziosa ai suoi occhi come una gemma che è stata perduta e poi è stata ritrovata, come l'unica pecorella che si è smarrita allontanandosi dall'ovile e viene poi recuperata e tratta in salvo.

E al culmine del suo discorso, ecco che prorompe in questa famosissima parabola che è meglio definire “del Padre misericordioso”, visto che è appunto Dio Padre il vero protagonista della vicenda.

La Lettera agli Ebrei dice espressamente che “Un testamento ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.”(Eb 9, 16); il primo ad avere diritto di successione era il figlio primogenito, a cui spettavano due terzi delle proprietà. Solo un terzo spettava al figlio minore. Ciononostante, a fare richiesta dell'eredità era solo il figlio più grande, il primogenito. Il figlio minore non poteva legittimamente appropriarsi né vendere la propria parte fin quando il padre era in vita. Anche nel libro del Siracide (33, 20 - 24) vi è un certo riferimento a che il genitore non debba abbassarsi ai figli mentre è ancora in vita.

La pretesa di questo giovane perverso che vorrebbe in anticipo la sua quota è quindi illegale e meritoria anche di condanna. Qualche scrittore afferma che se il figlio minore avanza una simile richiesta, ciò vuol dire che considera il padre “già morto”, ossia non più meritorio di affetto e di attenzione, non più degno di rispetto da parte di questo giovane: questi si concentra esclusivamente sulle ricchezze di cui può entrare in possesso e non gli importa nulla del padre.

E' vero che il paragone potrebbe anche non funzionare, ma al giorno d'oggi si parla addirittura di giovani che uccidono i genitori per anticipare l'eredità e questo delinea come l'avidità abbia sempre la prevalenza sui rapporti umani; la cupidigia e l'insensatezza sovrastano il buonsenso e la rettitudine morale fino a distruggere la consanguineità e l'identità familiare. In nome del successo economico e di una presunta sicumera si arriva perfino a misconoscere la sacralità dei propri genitori e perfino l'umanità è disattesa se ai fini del guadagno si arriva ad atti incresciosi e illogici quali nascondere la madre defunta nel freezer per continuare a intascare la pensione. In nome del profitto si uccidono oggigiorno perfino i figli. Sta di fatto che nella parabola lucana si trova una dimensione attualizzante di un figlio i cui sentimenti sono proprio quelli odierni della cupidigia e della bramosia materiale, che misconosce gli affetti familiari perché interessato solamente ai soldi e alle ricchezze che peraltro non gli spetterebbero.

La reazione del padre è contraria alle nostre aspettative di impulsività e di legittimazione legale: il genitore infatti non ricorre alla giustizia per scongiurare le pretese di questo figlio infido e perverso, ma semplicemente rispetta la sua volontà e gli concede quanto lui domanda. Il giovane raccoglie la sua parte di sostanze e fa addirittura di tutto per dimenticare la casa paterna e la sua famiglia di origine: va a vivere in una regione straniera dove sperpera ogni cosa dandosi ai vizi e ai piaceri libertini. Neppure si preoccupa di valutare se le sostanze gli basteranno per sopravvivere a lungo; non riflette sulla possibilità di investimenti o di impiego fruttuoso dei suoi capitali, ma smodatamente spende e dilapida ogni cosa, fino a restare privo perfino dei principali mezzi di sussistenza, complice anche la carestia.

La condizione di indigenza e di inopia assoluta, accompagnata dal disagio sociale in cui versa nel ruolo di pascitore di maiali, lo induce al ripensamento, ma non al pentimento. Dire che questo ragazzo si pente della malefatta nei confronti di suo padre è improprio e inadatto: la miseria, la fame e la penuria lo riconducono a casa non perché provi dolore per aver rinnegato il genitore, ma solamente per la garanzia di trovare lì almeno del cibo, anche lavorando come schiavo o salariato.

“Trattami come uno dei tuoi servi” intende dire a suo padre mentre si incammina verso casa.

Ma se la prima reazione del padrone di casa alla partenza del figlio era stata insolita e inaspettata, adesso, al rientro a casa del figlio, il suo atteggiamento è ancora più inaspettato e anzi straordinario, impensabile: non lascia neppure il tempo al giovane di esprimersi e di chiedere scusa, ma immediatamente gli corre incontro, lo abbraccia, lo bacia e si muove per organizzare una festa in suo onore: per quanto infido e mefitico sia stato, il giovane è sempre suo figlio. Certamente durante la sua assenza il papà sarà stato in pensiero, avrà penato e sarà stato in ansia ignaro di dove fosse andato. Avrà considerato oltre all'insensatezza della sua richiesta, anche la sua giovane età e la sua ingenuità di fondo, l'inesperienza, l'incapacità e la saccenza solo presunta di questo ragazzo così illuso di saperne più degli adulti e di conseguenza si sarà preoccupato. Come avviene in Geppetto, quando nel romanzo di Collodi Pinocchio spreca le pochissime monete facendo il vagabondo dopo che il padre ha venduto la sua casacca per comprargli l'abbecedario. Nonostante sia un burattino di legno, Geppetto si mette in viaggio per cercarlo per mare e per terra perché... è pur sempre mio figlio.

Il racconto parabolico in effetti non avrebbe bisogno di commenti teologici. Sottende al fatto che Dio, quale padre premuroso e misericordioso, non omette di rispettare la libertà dell'uomo di voler vivere “da dissoluto”, cioè ramingo e sperduto nell'illusione di una libertà di fatto inesistente. Dio concede all'uomo di usufruire di tutti i beni della creazione e di ogni risorsa deliberatamente anche in direzione ostinatamente contraria ai suoi voleri, in parole povere Dio concede all'uomo la libertà di peccare e di mancare nei suoi confronti, perfino adoperando nel peggior modo tutto ciò che è stato creato per lui. Dio concede la libertà di scegliere fra il male e il bene, di vivere nel peccato e nella perversione e tuttavia resta in attesa del suo ritorno, ben disposto a far festa per lui al minimo cenno di ravvedimento. Dio è come un navigatore satellitare: ti indica le direzioni giuste, ma ti lascia libero di non sceglierle e tuttavia attende che, sia pure in ritardo e per vie tortuose, tu lo raggiunga dov' Egli si trova.

L'amore di Dio non è paragonabile alle nostre ostinazioni al male, perché è un amore di pazienza e questa nel duplice senso di sopportazione e di persistente attesa. Dio infatti sopporta che noi ci orientiamo contro di lui, ma sa attendere alla porta di casa il nostro ritorno.

Mi sovviene considerare che Dio, soprattutto nel suo Figlio fatto uomo, si dispone a fare la nostra volontà nell'attesa costante che noi ci decidiamo a fare la volontà di Dio.

 

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