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TESTO Commento su Matteo 10,26-33

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XII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19/06/2005)

Vangelo: Mt 10,26-33 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 10,26-33

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: 26Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. 27Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!

32Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.

* Non so se capita anche a voi di provare talvolta un certo disagio, una certa difficoltà, dinanzi alcune pagine del Vangelo. Quel disagio che nasce quando la Parola di Dio, ad una prima lettura, sembra parlarci di cose e di realtà non così vicine a noi e alla nostra storia personale. Nella nostra comunità non c'è nessuno penso che subisca persecuzioni o maltrattamenti a motivo della sua fede, né tanto meno qualcuno che è costretto a tenerla segreta per timore di possibili ripercussioni.

Ecco, allora, che prima di addentrarci nella nostra riflessione ritengo importante sottolineare due punti, due criteri, a mio giudizio, essenziali per vivere il nostro cammino di fede.

Il primo criterio è la memoria: non possiamo leggere, interpretare e orientare la storia, il nostro presente, senza custodire la memoria del nostro passato. Quello che noi siamo è frutto di quello che siamo stati, e altri sono stati prima di noi, e per non cadere nel rischio delle derive, a cui il nostro tempo sembra essere particolarmente soggetto, dobbiamo custodire la memoria. Siamo un po' tutti malati di oblio: sembra quasi che la sovrabbondanza di informazione a cui siamo quotidianamente esposti produca, in maniera direttamente proporzionale, una sempre crescente dimenticanza.

Fino a pochi mesi fa i nostri giornali, le nostre emittenti televisive, erano piene di servizi dedicati allo tsunami... oggi non ne parla più nessuno, eppure il delicato e difficile lavoro di ricostruzione è ancora in corso. Ancora, fino a ieri la polemica sul caso Calipari ha imperversato nel nostro paese... telefonate, dichiarazioni, ripetuti incontri tra ambasciatore e rappresentanti del nostro Governo... per giungere a quale conclusione? Nessuno lo sa e forse lo saprà mai. E di questi esempi se ne potrebbero fare altri mille, ma ciò che mi sta a cuore non è dimostrare la forza della ragione, bensì invitare, voi e me, a custodire (come si custodisce qualcosa di prezioso) quei sentimenti di profonda commozione e partecipazione che nascono in noi ogni volta che veniamo messi a parte delle vicende terribili e dolorose che hanno segnato, e ancora oggi continuano a segnare, la storia dell'umanità. Accanto alla ragione deve esserci anche spazio per il sentimento, perché quanto comprendiamo con la testa sia illuminato anche dai riverberi del cuore sì da diventare uno stile di vita e di pensiero caratterizzato dall'apertura, dall'accoglienza e dall'amore concreto verso il nostro prossimo, chiunque e dovunque esso sia.

Un secondo aspetto importante per il nostro cammino di credenti ci è dato dal criterio con cui leggiamo la realtà. Un cristiano non può essere un uomo chiuso nel suo piccolo mondo, nella sua famiglia, nella sua parrocchia per quanto bella o attiva essa sia. Un uomo segnato dalla grazia e dalla fede, per sua natura, deve essere un uomo dagli orizzonti ampi, un uomo dalle larghe vedute e dal cuore aperto. È vero, talvolta il perimetro entro cui la nostra vita concreta si gioca è abbastanza ristretto, a tratti un po' angusto, ma non per questo il nostro essere è impedito dal travalicare con la forza dell'amore i suoi confini. A mo' di esempio ci basti la figura di santa Teresa di Gesù Bambino: una monaca di clausura scelta dalla Chiesa per essere patrona della Missioni: che paradosso! In lei, e dalla sua stessa testimonianza autobiografica, tocchiamo con mano cosa significa essere cattolici, ovvero essere uomini e donne con un cuore universale!
Così scriveva:

"Siccome le mie immense aspirazioni erano per me un martirio, mi rivolsi alle lettere di san Paolo, per trovarvi finalmente una risposta. Gli occhi mi caddero per caso sui capitoli 12 e 13 della prima lettera ai Corinzi. Continuai nella lettura e non mi perdetti d'animo. Trovai così una frase che mi diede sollievo: "Aspirate ai carismi più grandi. E io vi mostrerò una via migliore di tutte" (1 Cor 12,31). L'Apostolo infatti dichiara che anche i carismi migliori sono un nulla senza la carità, e che questa medesima carità è la via più perfetta che conduce con sicurezza a Dio. Avevo trovato finalmente la pace. Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Capii che solo l'amore spinge all'azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Allora con somma gioia ed estasi dell'animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l'amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l'amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà".

Alla luce di questi due criteri, credo sia ora più facile rileggere il vangelo che oggi abbiamo ascoltato.

* "Non temete gli uomini... e non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna": guardando alla prima comunità cristiana, ai contrasti che andavano acuendosi con la comunità giudaica, comprendiamo perché Matteo, alla luce della predicazione di Gesù, avverte il bisogno di tratteggiare la fisionomia e il volto del discepolo. Coloro che si sono posti alla sequela del Signore e del suo vangelo di salvezza, sono chiamati alla testimonianza, al martirio (in greco martyrion significa appunto "testimonianza"). Confessare la fede significa seguire le orme del nostro Maestro e Signore, anche quando queste dovessero condurre verso Gerusalemme... "la città che uccide i profeti"!

È vero, a noi non è chiesto di versare concretamente il nostro sangue per la fede ma come non pensare a quei molteplici luoghi in cui ancora oggi tanti nostri fratelli e sorelle subiscono violenza e soprusi. Lunghi sono gli elenchi dei martiri del nostro tempo, siano essi cattolici, protestanti, ortodossi. Alcuni sono vicini a noi (basti pensare a don Puglisi, o ai martiri d'Albania o della Bulgaria...) altri geograficamente più lontani (in America latina, in Cina, in Africa) ma tutti accomunati da un'unica passione: la certezza che l'amore e la speranza sono più forti delle armi e della violenza... da innamorati di Dio e dell'uomo, alla luce delle parole del Cantico dei cantici, portano nel cuore questa certezza: "le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i fiumi travolgerlo... perché forte come la morte è l'amore".

Per loro, come per la comunità cristiana di cui Matteo faceva parte, è importante oggi sentirsi ripetere questa frase del vangelo. E non certo per costruire la loro fede sulla paura di Dio e dell'inferno; ma per non lasciarsi coinvolgere nell'inferno quotidiano in cui si svolge la loro vita. In quei contesti, la paura più grande è quella di perdere la dignità di uomini, di perdere la speranza, e di lasciarsi coinvolgere dall'odio e dalla violenza. Può nascere talvolta nel cuore la paura di perdere la capacità di amare, di credere, di sperare! Questa parola del vangelo ci aiuta a radicare la nostra vita nella fiducia in Dio che è più grande di ogni cosa!

Qual è allora, però, il martirio a cui ciascuno di noi è chiamato? Madeleine Delbrel (di cui riporto un suo scritto) parlerebbe della passione delle pazienze. La nostra vita è segnata da quelle pazienze quotidiane su cui si gioca la nostra capacità di amare, di donarci fino in fondo, accettando, proprio nelle piccole cose di ogni giorno, di morire a noi stessi nella gratuità del dono di noi stessi! Come scrive la Delbrel:

"La passione, noi l'attendiamo. Noi l'attendiamo, ed essa non viene. Vengono, invece, le pazienze. Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria. Fin dal mattino esse vengono davanti a noi... e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi. E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un'occasione che ne valga la pena. Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura. Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano. Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita. È la passione delle pazienze".

Credo sia questo il martirio a cui tutti siamo quotidianamente chiamati!

* "Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti":

un'ultima parola vorrei spenderla su questo invito che il Signore ci rivolge.

Se, come dicevo, a noi non è chiesta la testimonianza del sangue, non per questo possiamo esimerci dalla testimonianza della vita. Non poche sono le circostanze della vita in cui costa fatica accogliere nella sua radicalità il vangelo così da testimoniarlo e annunciarlo anche agli altri. Nel cuore di molti alberga la convinzione che coloro che seguono il vangelo sono costretti a rinunciare alla loro umanità e alla loro libertà, asservendo le loro coscienze a chissà quale autorità o morale precostituita.

La logica cristiana non si fonda sulla rinuncia, o sulla privazione, bensì

sulla scelta e sul desiderio di vivere in pienezza tutte le cose.

Allora la testimonianza non sarà tanto questione di parole bensì di gesti e atteggiamenti concreti nelle diverse situazioni che segnano il nostro quotidiano. La bellezza delle nostre comunità, delle nostre famiglie, il modo in cui impostiamo i rapporti tra di noi, e nella fatica ci impegniamo a viverli, il modo in cui parliamo degli altri e del mondo, il modo con cui guardiamo le cose, il modo in cui le usiamo, il modo in cui viviamo il tempo, il modo in cui preghiamo... (l'elenco potrebbe continuare), tutto questo è eloquenza di ciò in cui crediamo.

Preghiamo oggi il Signore perché il nostro dire e il nostro agire non sia in contraddizione con il nostro credere.

Commento a cura di don Giampiero Ialongo

 

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