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TESTO Date gloria a Dio nel suo santuario

don Walter Magni  

Domenica della Dedicazione del Duomo di Milano, Chiesa Madre di tutti i fedeli ambrosiani (Anno B) (21/10/2018)

Vangelo: Gv 10,22-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. 23Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Il Vangelo odierno ci ricorda che Gesù amava camminare nel Tempio. Una precisa attenzione alla presenza eucaristica ci ha educati, entrando in chiesa, a fare un segno di croce, una genuflessione, raggiungendo poi un posto per pregare. Ma in un momento non celebrativo potremmo anche noi passeggiare lungo le navate. Avremo forse la grazia di risentire voci e rivedere i volti di coloro che ci hanno introdotti alla fede.

Le nostre solide fondamenta
Immaginiamo di entrare nella nostra Cattedrale, nel nostro Duomo. E mentre ne ammiriamo la bellezza e la maestosità, ci accorgiamo subito di appartenere a una chiesa grande e bella, ricca di una storia inestimabile. Se poi guardiamo anche alla chiesa che abitualmente ci capita di frequentare la domenica il cuore subito intuisce che tra quelle navate, attorno a quell'altare per decenni e secoli il popolo di Dio si è radunato a lungo per pregare infinite volte. Mettendosi continuamente in contatto con Dio, per ascoltarne la voce e innalzare accorato un'invocazione. Talvolta in modo esultante; talaltra col cuore pieno di apprensione o carico di dolore. Isaia direbbe che apparteniamo a “una città forte”. Sostenuta e fortificata da figure di uomini e donne ricche di santità e di profonda devozione. Potremo anche solo ricordare la sequenza di pastori santi che a partire dal secolo scorso ci hanno accompagnati alle soglie del terzo millennio, sedendo sulla cattedra di S. Ambrogio e di S. Carlo a Milano. I beati card. Ferrari e Schuster; il card. Montini, poi papa Paolo VI da poco proclamato santo. Come pure lo stesso card. Martini, che ancora molta gente ricorda con ammirazione e venerazione grande. Poi il pensiero corre proprio a quel prete che per tanti anni, con quel suo modo di pregare, ci ha segnato l'esistenza per sempre. Quasi a voler incidere sulle nostre persone, nella nostra carne, con la forza dei segni sacramentali, l'impronta stessa di Dio, della Sua grazia, della Sua presenza. Siamo eredi di una tradizione inestimabile.

Chiesa in crisi?
Il Vangelo di Giovanni, mentre annota che Gesù passeggiava sotto i portici del Tempio, fa una precisazione temporale: “era inverno”. Gli ebrei celebravano infatti in dicembre la festa dell'Hanukkah, la Festa delle Luci. Una festa del risveglio, che tutta si accende, illuminando della sua luce tutti coloro che si lasciano trascinare dai suoi bagliori. Per noi l'inverno è invece sinonimo di letargo. Di una natura che s'addormenta, di una vita che si rattrappisce e si irrigidisce, in attesa di una rinnovata primavera. E spesso di questi tempi ci prende il sospetto che anche le nostre chiese, e forse persino la Chiesa in generale, stiano vivendo una fase di passaggio. Piuttosto critica e un po' decadente. Tanto alcune fatiche sembrano allarmarci dentro. Creandoci spesso un'ansia da sopravvivenza che stenta a vedere la luce e a fatica si affida alla speranza. Ad alcuni non era del resto piaciuta l'espressione che il card. Martini aveva usato nella sua ultima intervista, quando affermava che la Chiesa è “indietro di duecento anni” (Corriere della Sera, 3.09.2012), tuttavia, proprio quelle parole, al di là di come le si voglia interpretare, potrebbero quantomeno scuoterci un poco. Farci intuire qualche dubbio, rimetterci più decisamente sulla strada non solo di una riforma, ma anche di qualche sano cambiamento di comportamento e di mentalità. Mi colpiva che anche il card. Scola nella sua prima lettera pastorale si domandasse: “il popolo di Dio che è in Milano è realmente in grado ancora oggi di annunciare Gesù Cristo?” (Alla scoperta del Dio vicino, n. 3).

Varcare la soglia della speranza
Piuttosto a volte si ha l'impressione, a riguardo di certe questioni di Chiesa, d'essere sempre sulla soglia. Come, ad esempio, abbiamo sperimentato in occasione del Sinodo sulla famiglia. Per un verso ci sembra di avere qualche intuizione nuova e forte, mentre i vescovi riscoprivano il tema della famiglia come soggetto di evangelizzazione, ma per un altro scatta subito la percezione di quante famiglie mancano nelle nostre chiese, ai nostri appelli e alle nostre indicazioni. E lo stesso potremmo dire anche in queste settimane, guardando al Sinodo dei vescovi sulla realtà giovanile. Vista soprattutto sul versante della formazione e del discernimento vocazionale. Certo ci sono ancora tanti giovani nelle nostre chiese, ma quanti ancora mancano, quando nonostante i nostri sforzi li vorremmo tutti incamminare dietro a Gesù e al suo Vangelo. A volte sembra che stiano più facilmente sulla soglia delle nostre chiese e fatichino a sentire che la Chiesa vuole essere per loro anzitutto una madre e non matrigna invadente e possessiva. Così continuo caparbiamente a credere, con tutte le mie forze che tanto la Chiesa è necessaria a Cristo, così come Cristo lo è per la Chiesa. Non potrò mai rifiutare la Chiesa contrapponendola all'Evangelo. Anzi se voglio dare concretezza e spessore dell'evangelo di Gesù che tanto amo, non potrò mai prescindere dalla Chiesa. Diceva un prete dal pensiero appassionato per la Chiesa: “Se non ci fosse la chiesa l'evangelo sarebbe carta, e Cristo sarebbe il ricordo di un morto” (Michele Bo, Amare la Chiesa, Qiqajon, 2008).

 

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