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XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (09/09/2018)

Vangelo: Mc 7,31-37 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 7,31-37

31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Venne verso il mare
È un itinerario assai improbabile, questo che Marco racconta: un andirivieni attraverso territori che non appartengono ad Israele, in terra straniera tra i pagani; dunque una immagine ricca di significati: Gesù entra nella storia degli uomini così come sono, visita la terra della lontananza da Dio, cammina nel tempo, nella storia, là dove l'uomo vive... e lo incontra; per lui i confini non hanno significato, non ci sono stranieri, nessuno è clandestino in questo mondo. Questa immagine giunge a noi per dirci che anche oggi, qualunque sia la nostra situazione, anche se abitiamo la “terra pagana” - e la nostra lo sta diventando - Gesù passa e ci incontra, entra nella nostra storia per condividerla. È un Dio senza fissa dimora, ha il volto del nomade, del pellegrino, dello straniero.

Gli portarono un sordomuto
il vangelo ci dice che gli portarono, quasi che quel sordo fosse incapace di camminare; l'immagine letta in chiave positiva supera quella del singolo personaggio, ma è tutto il gruppo che in qualche modo è sordo e impedito nel linguaggio (mogilalon, malparlante, balbuziente). In pochi tratti si racconta la condizione dell'uomo che è sordo davanti a Dio, balbuziente, incapace di parlare, che neppure si rende conto del suo problema, infatti non si chiede di essere guarito, ma che gli si imponga la mano: un gesto di benedizione (cfr. Mc 10,16), un misto tra fede e scaramanzia (a Livorno diciamo “vai a farti benedire dai greci” anche adesso che i greci ortodossi non ci sono più).
La bellezza della sottolineatura sta nella condivisione della situazione di quell'uomo, il farsi voce per lui: lo pregarono (il verbo paràkaleô suggerisce l'idea di supplica fatta con insistenza). I verbi al plurale, portarono, pregarono, raccontano una azione comune capace di accogliere e accompagnare, di fare la stessa strada (sinodo). Purtroppo, il pensiero dominante del nostro tempo [caratterizzato dalla postmodernità] è l'esaltazione dell'individualità, della identità propria, con tratti di egoismo; sordomuti che per scelta si defilano di fronte alla complessità delle situazioni che preferiscono non sentire e non parlare per quieto vivere, per omertà, per non correre rischi o per comodo.

Lontano dalla folla
Gesù lo allontana dalla folla, si passa dall'azione condivisa, solidale, dalla mediazione alla relazione personale. Non si tratta di un isolamento - per non contaminare gli altri come per le malattie infettive - quanto per non lasciarsi condizionare dal sentire comune - da ogni contaminazione mondana (papa Francesco 02.09.18).
L'immagine è quella del “tu per tu” in cui la comunicazione passa dal superficiale per entrare nella profondità, il “tocco” delle dita è molto più di una parola detta, con la saliva è donato il respiro e la parola; lo Spirito del Signore arriva a toccare lo spirito di quell'uomo.

«Effatà», cioè: «Apriti!»
Gesù alza lo sguardo poi sospira; si racconta un impegno notevole in cui Gesù esprime la comunione col Padre celeste, quanto sia complessa l'apertura alla comunicazione, alla relazione con gli altri e con Dio.
In ultimo Gesù pronuncia una parola, riportata nel suono originale aramaico e poi tradotta: «Effatà, cioè apriti»; una parola potente ed efficace, che realizza ciò che dice. Il fine ultimo di tutta l'azione descritta è provocare lo spalancarsi alla realtà che ci circonda, l'entrare in relazione, prendere il coraggio della parola che nasce dall'ascolto, liberarsi dalla indifferenza, dall'opportunismo e dal tacere vigliacco o dal malparlare egoistico, ingeneroso del dire e del non dire.

Fa parlare i muti!
Il racconto si conclude con l'imposizione del silenzio. È il tema ritornante nel vangelo di Marco del segreto messianico in attesa della Pasqua che tutto rivela e porta a comprensione. Il miracolo non deve essere né visto, né udito, né raccontato, sarà il suo divenire nella storia che ne darà evidenza, quando l'uomo diventerà capace di ascoltare e parlare correttamente: “diceva bene” o “bene-diceva”.
Se restiamo sordi, si ripetono acriticamente parole altrui, le frasi fatte, quelle del sentito dire, degli slogan, delle semplificazioni, del risentimento. Il cuore dell'uomo, non solo le orecchie e le labbra, devono “aprirsi” alla realtà e all'umanità che lo circonda. Allora, si “parla bene”, si pronunciano anche parole critiche ma capaci di costruire, parole buone e responsabili, parole che educano, che edificano, che perdonano, si bene-dice.

 

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