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TESTO Storia di un vestito stonato?

don Angelo Casati  

IV domenica dopo Pentecoste (Anno B) (17/06/2018)

Vangelo: Mt 22,1-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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1Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: 2«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Ci sono luci e ci sono ombre nei brani che oggi abbiamo ascoltato. E vi confesso apertamente che i miei pensieri, e di conseguenza il mio commento, lasceranno più di un'ombra, e più di una domanda, in voi che mi ascoltate. Potremmo partire dalla parabola, l'invito a nozze. C'è qualcosa - confessiamolo - che ci sfugge. Ci sorprende la durezza, quella degli invitati, loro si rifiutano, hanno altro da fare. Tra parentesi, quante volte - pensavo - anche noi ci rifiutiamo dicendo che abbiamo altro da fare. Ma, poi, come si fa, come si può arrivare ad uccidere i servi che portano un invito? E poi ecco assistiamo alla ritorsione del re che uccide a sua volta gli invitati e manda in fiamme le loro città.

E' vero che poi il racconto prende toni più sereni: ecco si fa il banchetto ed è un banchetto per tutti, cattivi e buoni, radunati da ogni dove. Ma poi anche nel pieno di quella festa è come se qualcosa si incrinasse, e a rompere il clima è l'uomo senza veste nuziale. Cattivo? Ma di cattivi ce n'erano altri, forse tanti nella sala: "cattivi e buoni" sta scritto. Difficile da capire. Anche se gli esegeti ci vanno suggerendo che le parabole non vanno prese in tutti i loro dettagli. Per tentare di capire - capire qualcosa, un minimo! - mi sono chiesto dov'era Gesù quando raccontava la parabola e che cosa potesse avere in cuore in quel momento, quando gli uscirono quelle parole. Era nel tempio di Gerusalemme.

Cos'era successo il giorno prima? Gesù aveva fatto il suo ingresso in Gerusalemme, acclamato da alcuni come Messia e guardato con dubbi e interrogazioni da altri. Era poi entrato nel tempio, e aveva cacciato dal tempio quelli che vendevano e quelli che compravano, tra gli osanna dei bambini e lo sguardo bieco delle autorità del tempio. Qualcuno, secondo noi, gli avrebbe potuto suggerire che se ne stesse per un po' di tempo lontano, un minimo di diplomazia. No, passa la notte a Betania in casa di amici ed ecco che subito, il mattino seguente, si ripresenta nel tempio. Naturalmente quelli, inviperiti, gli chiedono con quale autorità lui faccia tutto questo. E lui non risponde, racconta parabole. Tre ne racconta e quella di oggi è una. Tutte e tre hanno un tema comune: una contestazione radicale, senza "se" e senza "ma", della loro autorità, un giudizio inequivocabile su di loro. Che dicono e non fanno. Parlano tanto. Ma niente fatti.

Narra loro la parabola dei due figli: il finto osservante che dice sì e non va nel campo, l'altro apparentemente ribelle che dice no, ma poi va nel campo. Avevano capito: le parole andavano a loro. Era come se li smascherasse. Matteo scrive: "i capi dei sacerdoti capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura dell folla perché lo considerava un profeta". E lui aggiunge un'altra parabola, la nostra. Ecco il contesto, a mio avviso importante:, la nostra non è una parabola raccontata, che so io, sul prato di un monte con una folla perduta ad ascoltarlo. Capirono che ancora una volta parlava di loro. Li smascherava perché, credendosi chissà chi, non si degnavano di unirsi al banchetto di tutti. Li accusava di una religione fatta di interessi: di affari e di campi. Lui li smascherava. Come i profeti avevano smascherato i capi religiosi del loro tempo, che approfittavano della religione. Li avevano anche uccisi e lui ora era in odore di morte.

Dove sta allora il cuore della parabola? Forse - dico forse - nell'immagine di un banchetto che Dio apre a tutti. E non a un solo popolo, e dove in assoluto non c'è posto per ruoli o precedenze. Cattivi e buoni. Ma allora cosa pensare dell'uomo senza abito nuziale? Se non, forse, che è uno che si tiene il suo abito e non si degna di prende la veste che è di tutti, a disposizione di tutti, uguale per tutti. Sembra di vederlo: una folla di invitati riuniti in un colore, e lui che fa macchia con il suo vestito. Una nota stonata. Come se non volesse sciogliersi nella bellezza della coralità. Un individualismo accecato il suo, lui doveva distinguersi: lui c'era, ma non c'era. Come succede anche a noi a volte di esserci e di non esserci.

Ecco potrei chiedermi come mi pongo io nei confronti del sogno di una umanità condivisa. Il mio vestito è intonato al sogno o sono una nota stonata? Il sogno è il banchetto, il sogno è il "noi", il "noi insieme", è la pluralità del convito, non il delirio di un io ipertrofico, che non si scioglie nell'ebbrezza di una festa corale. La parabola parla di città date alla fiamme. A volte si fatica a capire che questo, lo si voglia o no, è l'esito di una società che si rifiuta al banchetto dell'universalità, di una società dove ciò che conta è il "proprio" e non il bene comune: "andarono" è scritto "chi al proprio campo, chi ai propri affari. Città incendiate, dopo l'inganno della sicurezza. E vengo, ma di striscio, alla lettura della Genesi con il racconto della distruzione di Sodoma e Gomorra.

Alla fine del racconto mi rimane negli occhi la figura di Abramo che il mattino contempla Sodoma e Gomorra dall'alto: "un fumo saliva dalla terra come il fumo di una fornace". Città distrutte. Ho provato a immaginare gli occhi e il cuore di Abramo che aveva trattato con Dio perché le città fossero risparmiate. Ma perché si era arrivato a tanto? Se stiamo alla narrazione biblica, di che cosa si erano macchiati gli abitanti di Sodoma? Avevano chiesto a Lot che venissero loro consegnati gli stranieri che erano stati ospitati nella sua casa. Era l'infrazione di un codice scritto nell'anima delle tribù più antiche: il codice dell'ospitalità. L'ospite - non importa chi fosse - era sacro. Sacra l'ospitalità.

Ora forse capiamo quanto sia intrigante nel racconto l'accostamento tra la tenda di Abramo, capitolo diciottesimo della Genesi e la città di Sodoma, capitolo diciannovesimo. La tenda di Abramo e l'ospitalità data ai tre sconosciuti. Ebbene l'ospitalità di Abramo e Sara avrà come effetto che la tenda conoscerà la vita, Sara avrà un figlio, lei che si pensava avvizzita. Al contrario la violazione dell'ospitalità, nei confronti degli sconosciuti, da parte degli abitanti di Sodoma, ha come effetto la morte, il fumo che sale dalla valle. Mi sono chiesto se anche queste non siano parole ammonitrici, per i nostri giorni.

Dalla parte di Abramo e Sara? O dall'altra parte?

 

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