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TESTO Credibile è chi crede all'incredibile

don Cristiano Mauri  

Venerdì della V settimana di Quaresima (23/03/2018)

Vangelo: Gv 10,31-42 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Gesù è nel Tempio durante la festa della Dedicazione e le parole che ha appena pronunciato - «Io e il Padre siamo uno» - scatenano le ostilità dei Giudei. Alle loro orecchie la pretesa iscritta in quelle parole equivale a una bestemmia da punire con la lapidazione.
La risposta di Gesù è una richiesta di spiegazione. Le opere che ha compiuto in mezzo a loro sono «belle», espressione nota alla tradizione dell'Antico Testamento per indicare la conformità alla volontà di Dio. Sono compiute da Gesù ma hanno origine in Dio e manifestano la sua presenza tra gli uomini. Come possono essere motivo di condanna?
I Giudei operano un distinguo: non sono le opere da condannare, bensì il fatto che, a partire dalle opere Gesù intenda farsi uguale a Dio. La bestemmia consiste nel divinizzarsi, oltraggiando così il primo comandamento sull'unicità di Dio e del culto da prestargli.
La controversia procede sul terreno della Legge, alla quale Gesù si appella per mostrare la verità delle sue affermazioni attraverso un semplice ragionamento esegetico.
Cita un versetto del Salmo 82 - «Ho detto voi siete dei» - applicandolo a «coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio». L'andamento dell'argomentazione porta a pensare che costoro sono tutti gli israeliti, in quanto destinatari della rivelazione al Sinai e dunque degni di esser chiamati «dei, figli dell'Altissimo».
Se dunque loro possono considerarsi come déi, a maggior ragione può farlo colui che è stato scelto («consacrato» = separato per un particolare incarico da Dio) e inviato nel mondo dal Padre. Chi più di lui può dirsi “Figlio di Dio”?
Respinta l'accusa di blasfemia, Gesù torna sul tema delle «belle opere», facendo notare che, nella misura in cui manifestano la presenza di Dio, diventano un criterio di legittimazione delle sue affermazioni.
Se infatti non compisse le opere del Padre, cioè se i suoi atti non rivelassero la presenza di Dio in lui, allora avrebbero ragione a non credergli. Ma se è vero - come è vero - il contrario, allora i suoi avversari non possono non prestare fede almeno all'eloquenza delle opere. Potranno squalificare Gesù, ma non il suo gire e dar credito ad esso li porterà a scoprire e comprendere l'unità tra Padre e Figlio.
Suggestivo è il fatto che Giovanni collochi la controversia nella festa della Dedicazione del Tempio. Mentre il popolo è radunato a celebrare la consacrazione dell'altare, l'evangelista spinge a prenderne le distanze: la piena presenza di Dio non è più il Tempio, ma la persona di Gesù.
Sfuggendo nuovamente alla cattura - non è infatti ancora la sua «ora» - Gesù si ritira fuori dallo spazio dell'ebraismo ufficiale, là dove era iniziata la sua attività pubblica. Lì, ai margini dell'ufficialità, raccoglie numerosi attestati di fede.

Credibile è chi crede all'incredibile
Il tema delle «opere belle» di Gesù e della loro credibilità mi fa pensare.
Si parla di frequente nella Chiesa di quanto sia importante risultare credibili agli occhi del mondo nell'aderire al Vangelo. E la credibilità è sempre declinata nei termini di una vita coerente al messaggio di Cristo.
Giusto, la fede cristiana o tocca la “carne” - il vissuto concreto con tutto ciò che lo compone - oppure che fede mai può essere?
Così, si fa spesso coincidere la credibilità con una perfetta, ineccepibile, immacolata condotta di vita. Il testimone autentico di Cristo sarebbe solo quello che risulta impeccabile - nel letterale senso della parola - e fa del suo cammino di sequela un eccezionale “percorso netto”. Basta una distrazione, un attimo di sbandamento, un cedimento momentaneo ed è la fine di ogni credibilità.
Rischiando di fare la voce fuori dal coro, mi chiedo? Non è un'idea di credibilità un po' mondana, quasi da marketing?
Si punta sullo scintillio, sulle prestazioni, sui risultati, sulla massima efficienza. Si mira a produrre una prova inattaccabile, incontrovertibile, un certificato di qualità assolutamente convincente.
A me toglie un po' l'aria e mi chiedo come tutto questo possa raccontare il mistero di morte e resurrezione che è il cuore del Vangelo. Mi manca qualcosa. È tutto troppo terreno. Dove vedo e tocco «il Mistero che salva»?
Il testimone autentico del Vangelo è fragile, povero, peccatore. Mentre vive sinceramente gli insegnamenti di Cristo sperimenta la propria incapacità a farlo perfettamente. Avverte lo scarto che c'è tra la propria esistenza e quella di Gesù.
Ma non dispera. Non teme. Non si vergogna. Guarda alla Croce vedendovi il proprio peccato amato. Contempla il sepolcro aperto e sa che la morte non ha l'ultima parola. E chiede aiuto, invoca misericordia, domanda la forza, spera nella salvezza che viene da Dio.
Il nostro operare il Vangelo è credibile ed è una vera testimonianza per Cristo quando è pasquale. Cioè quando tocca con mano la Croce del proprio fallimento, ma afferma con forza, ripartendo di nuovo, la propria fede nel Padre della Misericordia che dà la vita.
Un cristiano è credibile quando parla - con parole e opere - dell'Incredibile.
Quello dell'amore di Dio che salva anche dalle incoerenze.

 

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