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TESTO Ti esalto, Signore, perché mi hai liberato

don Walter Magni  

IV domenica T. Pasqua (Anno B) (22/04/2018)

Vangelo: Gv 10,27-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Il Vangelo va letto bene. Cercando di raggiungere l'intenzione con la quale Gesù pronuncia certe parole o ci regala alcuni racconti, parabole. Ad esempio, nel Vangelo di oggi Gesù, per descrivere la relazione profonda che intrattiene con i Suoi discepoli e la gente che Lo seguiva volentieri, ci dipinge il quadro di un pastore con le sue pecore.

Pastore di una chiesa “in uscita”
Capita che alla vista di un agnellino siamo richiamati facilmente a un senso di tenerezza, di semplicità, ma all'udire il termine gregge subito il pensiero va un insieme indistinto di pecore. E un'espressione dispregiativa è questa: “un gregge di pecoroni!”. Immaginando una pecora che va dietro l'altra, per istinto di appartenenza, di sopravvivenza. Come tanta gente che va dietro a chi grida di più. Senza cercare di capire, senza usare la testa. Non è certo questo il gregge che Gesù ci descrive quando afferma che “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Gesù non è venuto al mondo per circondarSi di un gregge di adulatori, senza testa. Sin dall'inizio ha chiesto ai Suoi di stare con Lui, imparando il Suo linguaggio e il Suo modo di ragionare. Perché sapeva, come dice il profeta, “che i miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Per questo invitava i Suoi a capire, liberi di stare o andare. Come diceva Martini in occasione della Cattedra dei non credenti: ormai “la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. L'importante è imparare a inquietarsi”. Forse l'idea di una chiesa compatta e ordinata, come l'immagine di un gregge potrebbe far pensare, piace ancora a qualcuno. Ma il fatto è che apparteniamo di fatto ad una chiesa “in uscita”, come dice papa Francesco. E non ci si deve stupire che, volendo respirare un'aria più fresca e pulita, stando tutti sulla soglia del recinto delle pecore, ci sia una certa confusione e un po' di intasamento.

Odore delle pecore e profumo di Cristo
Va ripresa la sequenza dei verbi che Gesù indica, descrivendo il rapporto tra il pastore e le pecore del suo gregge. Si tratta, infatti, di pecore che anzitutto “ascoltano” la sua voce e, in questo orizzonte, allora il pastore le conosce tutte, e così concretamente lo seguono: “io le conosco ed esse mi seguono”. Rilettura di un'espressione ben più profonda e carica, che ci descrive i termini della relazione intima e singolare tra Gesù e i Suoi discepoli. Attenendosi a una sequenza - fatta di ascolto, conoscenza e sequela - che va pazientemente ridetta e declinata nelle nostre chiese e nelle nostre comunità. E papa Francesco, sintetizzando di fatto questo passaggio evangelico, ci ha abituati all'immagine del pastore che si porta addosso “l'odore delle pecore” (28/3/2013, Giovedì santo). Un'espressione usata talvolta anche nelle nostre chiese come giudizio nei confronti di molti pastori. Meglio, tuttavia, cercare di riprendere la sequenza dei verbi usati da Gesù, per cercare di stare insieme, gregge e pastore, dentro le nostre chiese, imparando insieme a odorare tutti del profumo di Cristo (2Cor 2,14), il solo che si diffonde per tutta la casa (Gv 12,4). Qualcuno ricorda che il Card. Martini durante una camminata in montagna, superato un pastore che stava sdraiato a guardare il cielo mentre le pecore pascolavano tranquille, disse con un po' di ironia: “lo vedi il buon pastore? Non fa nulla. Lascia che le pecore bruchino l'erba” (S. Fausti). In tutta libertà, lasciando che scelgano l'erba migliore, spostandosi qua e là, uscendo magari dalle fila compatte del gregge.

“Nessuno le strapperà dalla mia mano”
E c'è un'ultima azione, un altro verbo che s'aggiunge a quelli già sopra elencati, che quasi ci introduce a una sorta di finale, che non ammette più repliche. Quando Gesù afferma delle Sue pecore che “non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Al punto che “nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Come fossimo non solo profondamente uniti, stretti a Gesù buon Pastore, ma soprattutto saldamente trattenuti da Lui, nella Sua mano. Come Paolo quando afferma d'essere stato afferrato e conquistato, “impugnato da Cristo Gesù” (3,12). Un'immagine che potrebbe indurci a pensare ad una sorta di azione di forza di Dio, che ci trattiene e ci costringe. Ma non è questa la mano del buon Pastore. Del pastore bello. A questo riguardo p. M. Bellet, teologo e filosofo francese recentemente scomparso, ci ha parlato piuttosto di una divina tenerezza che è “pace, pace misericordiosa, acquietamento. Una mano dolce e materna che conosce, conforta, ripara senza trauma, rimette nel posto giusto. Uno sguardo simile a quello di una madre sul figlio che nasce. Orecchio attento e discreto che nulla spaventa, che non giudica, che sceglie sempre il buon sentiero umano dove si potrà vivere perfino l'invivibile. Essa è salda come la buona terra, su cui tutto riposa. Ci si può appoggiare su di essa, pesarci sopra senza timore (...). La divina tenerezza tutto salva, vuol salvare tutto. E non dispera di nessuno, crede che vi sia sempre una strada”. Come anche canta un poeta: “Tu sei per me ciò ch'è la primavera per i fiori!” (G. Centore).

 

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