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TESTO Commento su Gv 18,28-40

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Sabato Santo (31/03/2018)

Vangelo: Gv 18,28-40 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Lectio
28Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
Giovanni omette di raccontare cosa sia successo da Caifa perché nel capitolo 11 aveva già parlato di una riunione dei sacerdoti (Sinedrio), in cui si era deciso di mettere a morte Gesù. Quindi si passa al pretorio, cioè non semplicemente a Pilato, ma all'organo ufficiale che rappresentava l'impero romano. I sacerdoti sono decisi ad andare fino in fondo. Il prefetto di Giudea abitualmente risiedeva a Cesarea, ma in occasione della Pasqua si trasferiva a Gerusalemme per fronteggiare eventuali disordini a causa della grande folla di pellegrini. Non si sa bene dove si collocasse il pretorio all'interno della città santa, o nella fortezza Antonia, nell'angolo nord-est della spianata del Tempio, o il palazzo di Erode.
Era già l'alba. Con questa precisazione storicamente verosimile, l'evangelista segna l'inizio di una giornata capitale, quella in cui Gesù porta a termine la sua missione nel mondo (cf. 19,30: tutto è compiuto). Gesù viene introdotto nel pretorio, mentre i giudei non entrano poiché avrebbero potuto contaminarsi con qualcosa che era presente in quell'edificio di pagani. L'ironia è pungente, essi osservano la purità esteriore, ma il loro cuore è pieno di odio omicida. Non solo: essi non riconoscono che Gesù è il vero agnello pasquale, che libera il popolo di Dio dalla morte.

29Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest'uomo?».
Pilato fu descritto dai suoi contemporanei come un uomo molto brutale e ostile ai Giudei. Nei vangeli invece lo si vede impegnato a salvare Gesù dalla morte. Pilato dunque viene costretto a uscire dal pretorio e ad andare incontro agli accusatori di Gesù. Egli domanda loro l'accusa che portano contro quest'uomo. Probabilmente conosceva già i fatti, ma di certo seguiva un protocollo per una corretta condanna e al tempo stesso obbliga i capi dei Giudei a dichiarare apertamente i loro intenti.

30Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato».
I Giudei, o meglio i sacerdoti, rispondono con disprezzo. Il loro vero scopo è tenuto in disparte, per il momento. Ma il verbo consegnare viene pronunciato in prima persona dalle autorità di Israele: si rivela il loro disprezzo nei confronti di Gesù che trattano come un volgare malfattore.

31Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Il prefetto risponde alla loro arroganza umiliandoli: li rinvia alla loro competenza, costringendoli così a esplicitare il loro disegno e a confessare la loro impotenza, cioè che essi vogliono la morte dell'imputato ma non possono infliggergliela legalmente.
Sembra qui che i Romani, che solitamente rispettavano le tradizioni locali, avessero sottratto al tribunale giudaico il diritto di infliggere la pena di morte. Ciò era vero solo in parte, essi potevano infliggere la pena capitale se un non giudeo avesse violato il divieto di penetrare nel Tempio nella zona ammessa solo ai giudei e potevano anche lapidare una donna giudea riconosciuta adultera. Così avrebbero potuto condannare a morte e uccidere Gesù in quanto riconosciuto come blasfemo. Essi però si rimettono al giudizio di Pilato poiché Gesù aveva riscosso grande successo e quindi temevano una sollevazione del popolo, soprattutto in questo momento di festa, con un grande numero di pellegrini presenti a Gerusalemme. Un'esecuzione eseguita dal potere straniero sarebbe stata esemplare e avrebbe messo a tacere tutti i sostenitori di Gesù.

32Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Invece di annotare che d'ora in poi Pilato si assume il compito di svolgere il processo, Giovanni segue un altro registro: ricorda che Gesù aveva profetizzato il modo della propria morte. Evoca così una profezia di Gesù, la cui parola si “compie”, come quella delle Scritture.

33Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».
Rientrato all'interno del pretorio, Pilato interroga Gesù in privato, cosa che potrebbe sorprendere durante un processo ufficiale. Di fronte al Testimone della verità, egli dovrà fare una scelta personale. Agli occhi di Pilato, l'appellativo “re dei Giudei” poteva indicare sia un capobanda che cercava di sostituirsi alle autorità locali, ammesse dai Romani, sia un rivoluzionario zelota che voleva cacciare i pagani fuori della Terra Santa.

34Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Gesù interroga a sua volta il prefetto sull'origine dell'accusa: questo tratto pieno di autorità dà un certo tono all'incontro.

35Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Pilato non percepisce l'implicito avvertimento, che cioè rischia di essere manipolato dai capi dei sacerdoti. Manifesta indifferenza e probabilmente disprezzo. L'affare che gli hanno posto non è per niente importante per un romano. Si tratta di una lite interna ai Giudei e Gesù gli è stato consegnato dal suo popolo, dalla sua “nazione”. Pilato quindi non pensa a un tentativo zelota contro il potere romano, in questo caso sarebbe stato informato dalla polizia. Il testo mette in evidenza la responsabilità dei capi di Israele nella morte di Gesù.
Egli dunque chiede al prigioniero che cosa abbia fatto di male.

36Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Gesù risponde qui alla domanda precedente e afferma la propria basileia. Il termine greco non significa regno, bensì, regalità, quella che il Figlio esercita fin dalla sua venuta nel mondo. La regalità di Gesù riguarda soprattutto la sua provenienza “non da questo mondo”, la terra, il mondo di quaggiù distinto da quello di lassù. Non si tratta di un potere di tipo terreno e la prova è l'assenza di un combattimento al momento dell'arresto, di cui Pilato è senza dubbio informato. La regalità di Gesù non è di quaggiù però riguarda gli uomini.

37Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Pilato non reagisce a questo misterioso linguaggio, non chiede “da dove” venga tale regalità né in che cosa consista: ripetendo la propria domanda iniziale, insiste perché Gesù confessi di considerarsi un re; ma la qualifica di “re” (dei Giudei) non viene più precisata. E' una finezza di Giovanni, così Gesù risulta re in assoluto.

Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
La risposta di Gesù “Tu lo dici” è affermativa, però può essere interpretata come se Gesù evitasse di impegnarsi con un titolo che per Pilato evoca solo il potere. Il seguito del testo manifesta il senso che Gesù gli dà: ciò che rende conto della sua dignità regale è la missione di attestare la verità, missione di portata universale.

Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Per comprendere questa parola, bisogna far attenzione al senso del verbo “ascoltare”, lo stesso che fu usato per esprimere la relazione delle pecore con il Buon Pastore (10,27): non si tratta semplicemente di imparare qualcosa, ma di “impegnarsi”, di lasciarsi coinvolgere. Pilato stesso viene invitato a collocarsi di fronte al Rivelatore, secondo la sua intima disposizione. Manifestando che la propria regalità viene da altrove Gesù è un testimone in atto. Egli conduce a compimento la sua testimonianza che ha dato davanti ai Giudei, e che sigillerà con la propria morte.
38Gli dice Pilato: «Che cos'è la verità?».

Questa replica di Pilato non rappresenta una vera domanda, anzi esclude ogni possibile risposta: è un rifiuto di ascoltare. Le parole di un giudeo, un illuminato non interessano a Pilato. Di fatto sordo alla Parola, il prefetto si ferma alla nozione di “re dei Giudei”, come l'aveva intesa all'inizio. Si ostinerà ad usarla come se il ruolo del Testimone della verità non avesse alcuna incidenza sul processo.

E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.
Il prefetto dichiara ai Giudei che ritiene non colpevole il prigioniero. Il suo parere è contrario a quello dei sommi sacerdoti. Tale dichiarazione di innocenza dovrebbe concludersi con l'annuncio della liberazione del prigioniero, ma le cose vanno in modo diverso.

39Vi è tra voi l'usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Pilato vuole concedere a Gesù l'amnistia. E' lui che ricorda ai Giudei che potevano chiedere questa misura per la festa di Pasqua. Egli sa benissimo che essi esigono la morte di Gesù e tuttavia propone loro l'amnistia presentandola come un favore verso di loro. La provocazione è deliberata e la derisione evidente. Non è per desiderio di giustizia che Pilato ha dichiarato innocente Gesù, ma per istinto politico, per sfidare i sommi sacerdoti.

40Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.
I sommi sacerdoti cadono nel tranello, gridano molto forte che sia liberato un altro, il bandito. Quasi per immergere nel disonore i Giudei, Pilato maltratterà il loro “re”, sottoponendolo alla flagellazione.

 

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