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TESTO Lo spettacolo da contemplare

dom Luigi Gioia  

IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno B) (11/03/2018)

Vangelo: 2 Cr 36,14-16.19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 3,14-21

14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Provocatoriamente l'evangelista Giovanni ci mette davanti agli occhi un serpente, ci invita a superare la repulsione naturale che proviamo nei suoi confronti e a fissarlo per essere guariti. Uno degli animali che temiamo di più, la cui sola vista ci riempie di ansia, il simbolo del male per eccellenza già nel libro della Genesi, diventa uno strumento di guarigione - come avvenne in un episodio del libro nei Numeri nel quale Mosè lo innalzò su una stele perché guardandolo il popolo potesse essere guarito dal suo morso. Gesù si appropria di questo simbolo e presenta questo serpente, questa occasione di male e di morte, come un segno prefiguratore della croce.

Lo stesso paradosso caratterizza infatti la croce. Era, lo sappiamo, uno dei patiboli più crudeli e temuti del mondo antico. Ci siamo oggi così familiarizzati con essa da aver dimenticato il terrore che la sua vista ispirava nel mondo romano. Sulla croce c'era un condannato a morte straziato, torturato e contuso, disperato, disprezzato, vilipeso da tutti, sospeso tra cielo e terra, maledetto. Una scena dunque insostenibile che diventa però 'spettacolo', "teoria" -per dirlo con il termine di Luca (cf. Lc 23,35)- e richiede la nostra contemplazione (teoria in greco si traduce sia 'spettacolo' che 'contemplazioné), uno spettacolo che dobbiamo coraggiosamente contemplare per avere la vita.

La prima lettura ci aiuta in questo processo parlandoci dell'evento più traumatico di tutta la storia di Israele: la distruzione, circa sei secoli prima della venuta di Cristo, del tempio di Gerusalemme e la deportazione di tutta la popolazione della città a Babilonia per sei lunghi decenni di esilio. Tutti i segni della benedizione di Dio -la terra, il tempio e il re- vennero a mancare. La dignità regale e sacerdotale del popolo sembrava irrimediabilmente compromessa. Come il serpente e la croce, l'esilio provocò un dolore, causò un tale sconcerto che - come ce lo dice il salmo responsoriale - svanì il canto della cetra, cioè la possibilità della lode, e non restava altro che sedere e piangere lungo i fiumi di Babilonia: Là sedevano piangendo (Sal 136).

Eppure proprio l'esilio diventa un kairos, un tempo favorevole nel quale il popolo apre gli occhi. E' il tempo del ricordo: Se mi dimentico di te, Gerusalemme, la mia lingua si attacchi al mio palato (Sal 137,5), dice ancora il salmo responsoriale. E' il tempo nel quale matura la profezia: Dio ritorna a parlare attraverso la Parola di Dio. Infatti, proprio durante questo periodo di esilio la parola di Dio acquisisce una centralità nuova nella vita di Israele. La maggior parte dei libri che chiamiamo oggi 'Antico Testamento' sono stati redatti durante l'esilio. Non essendoci né tempio, né terra promessa, né re, tutta l'identità di Israele si concentra nella Scrittura.

Si schiude una volontà senza precedenti nella storia di Israele di ascoltare la voce del Signore, di farne memoria, di rimeditarla per scoprire il senso profondo di ciò che stavano vivendo. Ne risulta così una maturazione decisiva della speranza di Israele. A partire da quel momento cominciano a non mettere più la loro fiducia nel possesso di una terra materiale, in un re, in un sistema sacerdotale, ma ad attendere un messia, che sarà il vero re, sacerdote e profeta, cioè lo strumento decisivo dell'intervento di Dio nella storia, colui che realizzerà tutte le promesse di Dio.

Quindi le stesse cose -il serpente, la croce, l'esilio- possono essere visti da due punti di vista diversi: come tragedie irrimediabili oppure come eventi ai quali dover dare un senso, come fallimenti oppure come momenti di rinascita, come segni della collera di Dio o come occasioni per una rinnovata esperienza del suo amore.

L'esilio è presentato nella prima lettura come la conseguenza della collera del Signore: Tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole, schernirono i suoi profeti, al punto che l'ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio (2Cr 36,14-16). E' interpretato dunque dal libro delle Cronache come una punizione. Lo stesso vale per la croce: esistono correnti teologiche che la interpretano come un'espressione della collera di Dio, le cosiddette teorie della 'sostituzione penale', secondo la quale Gesù sarebbe stato punito dal Padre al posto di tutti noi. Queste teorie sono una perversione inaccettabile del messaggio biblico. Come al tempo dell'esilio, anche oggi è necessario scrutare la parola per avere accesso al senso profondo del disegno di salvezza di Dio. Che la croce non debba essere interpretata come un fallimento o una punizione ce lo assicurano sia Paolo nella seconda lettura che Giovanni nel vangelo. Paolo afferma: Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le nostre colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo (Ef 2,4-5). E poi Giovanni aggiunge: Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). La croce non è espressione della collera di Dio, ma del suo amore e della sua misericordia: Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito (Gv 3,16).

La luce della Parola talvolta umilia, rimprovera, ferisce, ma sempre per la nostra guarigione. Non dobbiamo aver paura di questa luce e di scrutare più attentamente la Parola o piuttosto di lasciarci scrutare da essa. Alla fine la Parola sempre e comunque ci consolerà permettendoci di approfondire la nostra comprensione del disegno di Dio sulla storia. Questo è l'invito che ci rivolge Gesù quando ci chiede: "Volete restare nelle tenebre oppure volete venire alla luce? Certo, venendo alla luce, sarete esposti all'umiliazione di dover riconoscere le vostre mancanze, le vostre infedeltà, la durezza del vostro cuore. Nello stesso tempo però riceverete occhi che vi permetteranno di vedere la croce in una maniera nuova, di contemplare in essa la presenza e l'azione di Dio nella vostra vita". In questo modo, anche le realtà più tragiche, come il serpente, o quelle più insostenibili, come la croce, o le tragedie più amare, come l'esilio, saranno trasformate in momenti di maturazione, di crescita, di grazia - tappe attraverso le quali diventiamo più profondamente veri figli del Padre.

Il testo dell'omelia si trova in Luigi Gioia, “Educati alla fiducia. Omelie sui vangeli domenicali. Anno B” ed. Dehoniane. Clicca Clicca qui

 

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