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TESTO Questo piccolo flauto di canna

don Angelo Casati  

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Ultima domenica dopo l'Epifania (Anno B) (11/02/2018)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La parabola - quella del pubblicano e del fariseo - era mirata. Aveva di mira qualcuno. Gesù la inventò - è detto espressamente nel brano di Luca - "per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri". Una malattia mortale, questa, mortale per chi coltiva nella vita il desiderio di essere giusto, un uomo giusto, una donna giusta. Perché è detto che dal tempio uno, il pubblicano, torno a casa giusto, fatto giusto, mentre l'altro, il fariseo, no. E Gesù ambientò la parabola. Poteva ambientarla in mille modi. Ne scelse uno che un po' mi inquieta, perché io sono di casa, il tempio.

Disse: "Due uomini salirono al tempio...". Come a dire che questa malattia della presunzione di essere giusti e del disprezzo degli altri può contagiare i luoghi che noi chiamiamo sacri. Può contagiare anche me, anche noi, che questa mattina figurativamente siamo saliti al tempio. E forse - dico forse - un po' fariseo della parabola divento anch'io se mi metto subito dalla parte giusta, quella del pubblicano. Pensando, senza un minimo di esitazione, che io no, io non presumo di essere giusto e non disprezzo gli altri. Siamo in una società in cui questa malattia non è stata ancora - e forse non lo sarà mai del tutto - debellata. Anzi viviamo una stagione in cui tutti vanno proclamando di essere quelli giusti, caricando di disprezzo gli altri.

Ebbene mettendo a confronto i due, le parole che più mi risuonano nella mente, sono la parola "pieno" e la parola "vuoto". Pieno quel fariseo: figura del pieno, un vaso pieno. "Stando in piedi, pregava così...". "Stando in piedi" - voi l'avete intuito - non è solo annotazione di una postura. Sta in piedi la sua preghiera, che non ha nulla da chiedere, ha tutto da sbandierare. La sua preghiera racconta il pieno, lui non può che essere gradito a Dio, lui è strapieno di meriti, lui che digiuna due volte la settimana, mentre il digiuno di per sé era richiesto una volta l'anno, lui che paga le decime di tutto, quando le decime da pagare erano solamente su un certo numero di cose.

E' un vaso strapieno. Strapieno di presunzione. Strapieno anche di disprezzo: "stando in piedi" può giudicare dall'alto in basso. Gli altri al suo confronto sono un gradino sotto, anzi molti gradini sotto, gente da bassofondo: "ladri, ingiusti, adulteri". E dentro ci mette anche quel pubblicano. Il pieno mi rende sprezzante. Mi rende anche pieno di parole. Quante parole anche nella preghiera del fariseo. Parole! Una osservazione che dovrebbe renderci saggiamente critici in giorni in cui siamo riempiti di parole.

E "giusti siamo noi, le cose giuste le facciamo solo noi, e gli altri sono dei poverini!" E così via. Non so - mi sto interrogando - se non sia anche questa la radice della violenza che sta ammorbando l'aria, la radice delle parole violente, delle scelte violente, delle prese di posizione violente, degli atti violenti. Mi chiedo se non sia anche questa una causa: il pieno che ci abita, il "pieno di sé". Non sempre, dunque, il pieno è buona cosa. E a fronte del pieno, il vuoto. Non sempre il vuoto, la coscienza del vuoto, è cattiva cosa. Il vuoto che mi fa paura è il vuoto di sentimenti, di passione, di amore.

Ma - pensate - da dove nascono i sentimenti, la passione, l'amore? Perché mi affaccio a Dio, all'altro, all'altra, se non per la consapevolezza di un vuoto, la consapevolezza che io non sono tutto, che io non sono pieno, che ho bisogno dell'altro, dell'altra e dell'altro? E l'altro, l'altra hanno bisogno di me, di quello che porto nel mio piccolo vaso. Riconosciamo le piccolezze che nello scambio vengono colmate. Il pubblicano non sta davanti agli altri, come fa' chi vuol essere ammirato, sta sulla soglia. Non sta in piedi, sta raggomitolato, lontano da ogni presunzione, non si autocelebra. Si batte il petto: con Dio non ha nulla da sbandierare, sente il vuoto.

E - pensate - quasi vuoto, quasi un nulla, la sua piccola ma intensa preghiera. Un soffio, ma un soffio che raggiunge il cielo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore". L'altra preghiera quella plateale del fariseo, muore in basso, non ha ali, gli muore addosso. E' lui la platea cui è destinata. Parole che non vanno al cuore di nessuno. E invece la piccola preghiera del pubblicano ha camminato lungo i secoli. E' diventata la preghiera del pellegrino russo, la preghiera del cuore. In molti hanno imparato a pregarla con il ritmo del respiro. Inspirando: "Signore Gesù, Figlio di Dio" ed espirando: "Abbi pietà di me!".

Preghiera di uno che si sente, ma senza tristezza, vaso vuoto da colmare. Per tutta la vita. Nella parabola di Gesù mi ha molto colpito il fatto che basti questo soffio di preghiera per essere salvi. E non una moltitudine di parole in cui manca il respiro del cuore. Gesù conclude dicendo che chi si esalta sarà umiliato, mentre chi si umilia sarà esaltato. E noi subito pensiamo all'al di là, certo! Ma io penso che c'è una umiliazione e una esaltazione già su questa terra, perché già da questa terra noi siamo indotti a togliere fiducia ai superbi, ai tronfi di sé, a coloro che si ergono a giudici di tutti e di tutto.

"Chi sono io per giudicare?": così risponde papa Fancesco a chi gli chiedeva un giudizio perentorio. Ebbene chi si sente umile, piccolo, vaso piccolo, ha un posto non solo nel cuore di Dio, ma anche nel cuore di chi lo incontra e lo conosce. Bello incontrare persone senza orpelli e senza supponenze. Generano aria buona sulla terra. Nella società meritano la nostra fiducia. Portano aria buona, fecondata dallo Spirito. Beata piccolezza! Fare vuoto per fare spazio al miracolo del quotidiano. Un vuoto che accoglie.

A questa piccolezza, che fa bella la terra, sembra alludere una poesia di Rabindranath Tagore, che un'amica mi ha mandato in questi giorni. E' una preghiera, quasi un soffio: fragile vaso, piccolo flauto, piccolo cuore, piccole mani.

Mi hai fatto senza fine
questa è la tua volontà.
Questo fragile vaso
continuamente tu vuoti
continuamente lo riempi
di una vita sempre nuova.
Questo piccolo flauto di canna
hai portato per valli e colline:
attraverso di esso
hai soffiato melodie eternamente nuove.
Quando mi sfiorano le tue mani immortali
questo piccolo cuore si perde
in una gioia senza confini
e canta melodie ineffabili.
Su queste piccole mani
scendono i tuoi doni infiniti.
Passano le età, e tu continui a versare,
e ancora c'è spazio da riempire.

 

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