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don Walter Magni  

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Ultima domenica dopo l'Epifania (Anno B) (11/02/2018)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La parabola di oggi racconta che due uomini erano saliti al tempio a pregare. Terminata la preghiera, il fariseo se ne esce appesantito dall'orgoglio e dalla presunzione, il pubblicano “tornò a casa sua giustificato”. La preghiera cristiana è definita e qualificata da come ci si rapporta a Dio. Più che il metodo conta il risultato: uscire di chiesa perdonato, con il cuore rinnovato, pronto ad amare così come Gesù ci ha insegnato.

La pagliuzza e la trave
L'evangelista chiarisce subito che “Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Perché la voglia di dire tutto di tutti, difendendoci, senza metterci in discussione, ce la portiamo dentro tutti, come un istinto. Prestandoci facilmente a un gioco che Gesù aveva previsto: “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non t'accorgi della trave che è nel tuo?” (Lc 6,41). Si dice che un discepolo si era macchiato di una grave colpa. E mentre tutti reagivano con durezza condannandolo, il maestro, invece, taceva. Allora uno dei discepoli sbottò dicendo: “Non si può far finta di niente dopo quello che è accaduto! Dio ci ha dato gli occhi!” Il maestro, allora, replicò: “Sì, è vero, ma ci ha dato anche le palpebre!”. In tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiali, ci si imbatte facilmente con tanti censori del prossimo. A questa categoria di persone non sfugge la minima mancanza degli altri. Anzi, si indignano gridando allo scandalo, perché la Chiesa è diventata troppo misericordiosa e permissiva. Loro si che, sentendosi investiti da una missione speciale da parte di Dio, saprebbero mettere in riga tante cose che non vanno e soprattutto certe persone che non quadrano. Sono i professionisti della verità e della giustizia. Eppure, mentre spesso si autocompiacciono di sparlare degli altri, si guardano bene dall'esaminare con lo stesso rigore lo stato reale della loro coscienza.

Salire al tempio a pregare
È con questi sentimenti che, stando alla parabola, il fariseo sale al tempio a pregare. Lui, così esperto della preghiera dei Salmi. Li conosce a memoria e li recita sempre ad alta voce, purché qualcuno lo senta. Non è tanto preoccupato di dare lode a Dio. Quest'uomo prega non per mettersi in contatto, in relazione con Dio, ma restare fisso su se stesso. Per ritornare con le parole su di sé. Dio è piuttosto un'occasione, uno specchio nel quale rimirarsi come un pavone. E la preghiera è solo un piedistallo, un palco dal quale recitare la sua parte: “stando in piedi, pregava così tra sé”, pregava “rivolto a sé (pròs eautòn)”. Si prega addosso, chiedendo a Dio di fare da spettatore delle sue prodezze morali: “Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Anche il pubblicano sale al tempio per pregare, ma quasi non osa entrare. Come tanti che nelle nostre chiese faticano ancora ad accostarsi all'altare. Sta rannicchiato contro una parete, sentendo tutta la distanza che lo separa da Dio. Dicendo umilmente: “O Dio abbi pietà di me, peccatore”. Sentendo d'essere anzitutto sotto il suo sguardo. Senza nulla presumere nei confronti di Colui al quale tutto dobbiamo. Si lascia sfiorare dal mistero di Dio con delicatezza ed evitando qualsiasi presunzione. Dov'è finita nelle nostre chiese questa umiltà? Questo sentirsi poca cosa stando al cospetto di Colui che tutto può? Un certo piglio padronale e l'indelicatezza che spesso ci prende nei confronti della fatica e delle fragilità della gente dice anche quale considerazione abbiamo di Dio.

Pregare sulla soglia
Questi due uomini erano saliti al tempio per pregare, come anche noi ci rechiamo in chiesa per l'eucaristia. Gesù però non privilegiava un luogo di preghiera. Andava volentieri al tempio, ma ci restava male se la gente trasformava la casa di Suo Padre in un mercato, in una spelonca di ladri (Lc 19,45-48). Gesù pregava volentieri all'aria aperta: in un giardino, in una località deserta, su di una montagna o stando in mezzo alla gente. Un giorno, invitato dai Suoi discepoli a dare qualche consiglio sulla preghiera, suggerisce loro di entrare in camera e, chiusa la porta, di mettersi a pregare il Padre “nel segreto”, senza dire troppe parole “come i pagani” (Mt 6,6-7). Come stesse dicendo che si impara a pregare stando sulla soglia, in punta di piedi. Rispettando il mistero di un Dio che parla se facciamo silenzio. E se le parole vengono meno, allora ci inviterebbe semplicemente a ripetere “Padre nostro...” (Lc 11,1-2). La preghiera della soglia e del nascondimento è quella che ancora commuove Dio. Spalancando il Suo cuore al perdono e alla misericordia. Ch. Péguy scriveva che le persone che si ritengono oneste, con la parola pronta, sicure di avere in tasca la verità, nascondono spesso delle ferite che non permettono che Dio le veda: “persone ‘oneste' che non si lasciano bagnare dalla grazia”. Che Dio ci veda così come siamo. Che la dolcezza della sua grazia ancora ci raggiunga e ci avvolga la sua infinita misericordia.

 

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