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TESTO Un pane senz'anima

don Angelo Casati  

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IV domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno A) (24/09/2017)

Vangelo: Gv 6,24-35 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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24Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. 25Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».

26Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. 27Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 28Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». 29Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».

30Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? 31I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». 32Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. 33Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». 34Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». 35Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!

Dobbiamo confessare che il brano tratto dal rotolo di Isaia che oggi abbiamo ascoltato, soprattutto nei tratti finali, era di una lucidità impressionante, oserei dire quasi impietosa, nel descrivere la situazione drammatica che il profeta aveva sotto i suoi occhi. Penso ci siano rimaste impresse alcune immagini: "Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia, tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento".

Noi invecchiati, una società invecchiata. Ma, se leggiamo più attentamente il brano, ci accorgiamo che qua e là, in piccoli interstizi del testo si affaccia una possibilità di cambiamento. Nonostante tutto, nonostante la desertificazione e la desolazione del tempio e della città. Respira all'interno del brano il nome di Dio. E non è solo un lugubre, distruttivo, esasperante, lamento. Proprio in questi giorni, rivolgendosi a un gruppo di giovani, il nostro arcivescovo li invitava a non accodarsi ai profeti della protesta, la protesta sterile, fine a se stessa.

Un po' scherzando, diceva loro: "Un editto che vorrei enunciare è che è proibito lamentarsi su come vanno le cose". E invitava ad essere "gente che, prendendo visione delle cose, mette mano ad aggiustare questo mondo, senza presunzione di avere ricette già pronte, proprio perché siamo tutti chiamati a mettere a frutto la vocazione che abbiamo ricevuto, ognuno con i propri carismi". Penso sia un invito da raccogliere in una stagione in cui tanto si urla, e poco, o niente, si propone. Diventiamo dunque costruttori. Confidando in Dio.

Bellissima l'immagine che di Dio ci lascia il profeta: "Ma, Signore, tu sei nostro padre, noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani". Ecco che cosa ci tocca e chi ci accompagna. Ci tocca lasciarci riplasmare come persone, come anima, come mondo. E ci tocca riplasmare la chiesa, la società, la terra secondo il disegno dall'alto. E non secondo i nostri calcoli dal basso, i nostri calcoli meschini. Ma chi ci accompagna? Ecco l'inizio della preghiera: "Se tu. Signore, squarciassi i cieli e scendessi!". Come a dire: "Non ci bastano le sole nostre mani, ci appelliamo alle tue, Signore! Se tu scendessi dal cielo....".

E Gesù a dirci, nel brano che oggi abbiamo ascoltato, che l'invocazione ha avuto una risposta. Dal cielo è sceso lui ed è lui il pane: "Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete". E' molto intrigante il contesto di questa dichiarazione di Gesù. Il giorno prima, sull'erba di un monte, Gesù aveva sfamato una folla, più di cinquemila; e dei pezzi avanzati avevano riempito dodici canestri. La gente impazziva, lo voleva fare re. Ma lui e i discepoli al calare delle ombre della sera si erano come dileguati: i discepoli sulla barca; lui li raggiunse mentre infuriavano le onde sul lago. Approdarono all'altra riva. Ed ecco che la folla il giorno dopo, immaginando, li raggiunge.

E Gesù coglie la situazione e dice tutta la sua amarezza: lo cercavano ancora una volta per il pane; non lo cercavano perché era lui. Erano rimasti al pane, non avevano visto oltre: il pane nei loro occhi non era stato segno di altro. Non avevano capito che era lui il pane vero, di cui nutrire la loro vita. Ogni volta che mi soffermo su questo episodio - e l'ho fatto più volte negli anni - mi sembra di capire che ci può essere a volte nella vita un mangiare, come dice Gesù, per essere sazi e basta: "In verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quel pane e vi siete saziati".

Che triste! Ci succede quando qualcuno mi dona qualcosa, e io intasco. Non riconosco quanto amore ci sia in quel dono. Intasco; e poi a darmi da fare per avere dell'altro. Come se non fosse la persona a emozionarmi, ma altro. Un pane senz'anima. Guardate che anche l'eucaristia può diventare un pane senz'anima, senza riconoscere l'anima che vi arde, il pane spezzato per amore dal Signore per me, per uno indegno come me. Quasi in assenza, di vero riconoscimento, di vera riconoscenza, di vera gratitudine.

Ecco, so che sto un po' sconfinando, ma mi succede di chiedermi se non è vero che oggi in parte venga a scolorire la gratitudine. Che dice un vedere la persona. Oltre la cosa. E mi chiedo se non dovremmo riapprendere la delicatezza, la gentilezza della gratitudine. Mi sembra dominare la pretesa, come se tutto fosse dovuto.

Un giorno mi capitò di fermami a pensare che io non avevo mai ringraziato chi nella mia casa illimpidiva i vetri. Un simbolo, tra migliaia di cose. La gratitudine mette in primo piano la persona. Perdonate l'accenno: svolgiamo la carte di cui sono avvolti i regali. Non svolgiamo le persone. Che cosa c'è dietro il loro velo? E viene meno la parola "grazie". Ne ha parlato più volte papa Francesco. Finisco con le sue parole: "Certe volte - disse - viene da pensare che stiamo diventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole, come se fossero un segno di emancipazione. Le sentiamo dire tante volte anche pubblicamente.

La gentilezza e la capacità di ringraziare vengono viste come un segno di debolezza, a volte suscitano addirittura diffidenza. Questa tendenza va contrastata nel grembo stesso della famiglia. Dobbiamo diventare intransigenti sull'educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe da qui. Se la vita famigliare trascura questo stile, anche la vita sociale lo perderà. La gratitudine, poi, per un credente, è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio.

Sentite bene: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio. Ricordiamo la domanda di Gesù, quando guarì dieci lebbrosi e solo uno di loro tornò a ringraziare (cfr Lc 17,18). Una volta ho sentito dire da una persona anziana, molto saggia, molto buona, semplice, ma con quella saggezza della pietà, della vita: "La gratitudine è una pianta che cresce soltanto nella terra delle anime nobili". Quella nobiltà dell'anima, quella grazia di Dio nell'anima ci spinge a dire grazie, alla gratitudine. È il fiore di un'anima nobile. È una bella cosa questa!".

 

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