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TESTO “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori”? Speriamo di no...

don Alberto Brignoli  

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (17/09/2017)

Vangelo: Mt 18,21-35 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 21Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Non so se si usi ancora, ma quand'ero piccolo io, in occasione della festa della mamma (anche del papà, ma più in quella della mamma) era usanza scriverle una letterina corredata da tanti cuoricini e fiorellini, il cui contenuto era più o meno sempre lo stesso, anno dopo anno: oltre ai ringraziamenti per tutto quello che lei faceva per noi, c'era la fatidica promessa, “Ti prometto che non mi comporterò più male, che farò il bravo e che ti obbedirò sempre” (parola più, parola meno). La reazione della mamma era sempre tra il commosso e il déjà-vu, ossia tra la lacrimuccia che faceva ricordare a una donna la bellezza di essere madre, e la sensazione che la promessa fatta - come già accaduto in altre occasioni - sarebbe rimasta lettera morta, ovvero un proposito irrealizzabile, soprattutto quando davanti si aveva un figlio dalla faccia tosta (per non dire altro) capace di “comprare” la mamma anche dopo averne fatte di cotte e di crude. I castighi ricevuti durante l'anno, le minacce di dire tutto al papà (che - chissà come mai - sapeva comunque sempre tutto) o di passare l'estate chiuso in casa a fare i compiti con la zia maestra e zitella, in quella fatidica mattina della seconda domenica di maggio venivano come d'incanto condonati senza alcuna condizione.

E questo, anche tutte quelle volte in cui, “dovendo fare i conti” ed essendo ormai decisa, d'accordo con il papà, a imporre un castigo esemplare, di fronte al più ruffiano dei figli che piangeva disperato dicendo “Ti giuro, non lo faccio piùùùù!!!”, i suoi minacciosi propositi crollavano inesorabilmente sotto i colpi di quella che Matteo nel Vangelo di oggi definisce “compassione” usando un verbo greco, splangkhnizomai, che deriva dalla parola “viscere”, “parte più intima del ventre”. Un verbo che solo chi ha vissuto fino in fondo la parte più intima del proprio ventre per generare vita può comprendere; un verbo che cerca di descrivere un sentimento indescrivibile, quello delle viscere materne che non smettono mai, neppure dopo il parto, di muoversi e di com-muoversi, perché, in fondo, un pezzo di cordone ombelicale rimane sempre attaccato; perché - si dice spesso, ed è così - “tuo figlio è sempre tuo figlio”, e alla fine gli perdonerai sempre tutto.

Nel Vangelo di oggi, c'è una figura materna molto particolare: ha un nome corto e prettamente maschile - Dio - che pur essendo padre, anzi padrone, addirittura re, nel momento in cui vuole mettere a posto il bilancio e si accorge che una delle voci di passivo più significative è il recupero crediti, non fa altro che agire d'ufficio, e chiama a sé tutti coloro a cui ha prestato qualcosa. Beh...alla faccia della qualcosa...gliene presentano (certo, di sua spontanea iniziativa non ci sarebbe mai andato...) “uno che gli doveva diecimila talenti”. Forse a noi la cosa non dice più di tanto perché abbiamo un altro metodo di calcolo: ma se teniamo presente che un talento equivaleva a circa 30 chilogrammi di oro, stiamo parlando di qualcosa di incalcolabile (intorno agli 11 miliardi di euro attuali, per intenderci). A parte il fatto che ci viene da chiederci come un semplice “servo” abbia potuto accumulare così tanti debiti, rimane da capire come faccia a estinguerli, e soprattutto con quale sfrontatezza, quale “faccia di tolla” o ruffianeria abbia il coraggio di implorare il padrone in ginocchio promettendogli che - a cambio di un po' di pazienza - avrebbe restituito tutto. Altro che bimbo ruffiano che piange dicendo “Ti giuro, non lo faccio piùùùù!!!”: lì andava sbattuto in carcere senza mezzi termini, o meglio ancora venduto come schiavo con la famiglia, per cercare almeno di ricuperare qualcosa... Cosa volete che altro facesse il padrone?

Eppure fa altro... Non gli dice “Dammi quello che puoi”, o “Lavora gratis per me per il resto della tua vita”: gli condona tutto il debito! E lo fa agendo come una mamma, lasciandosi muovere e commuovere le viscere come per un figlio...nella speranza, forse, che il figlio capisca qualcosa, che non accumuli più così tanti debiti, o quantomeno che apprenda ad avere gli stessi sentimenti. Speranza vana, perché passano solo pochi minuti e il servo sfrontato dimostra di avere la memoria corta, di essere privo di sentimenti non dico di compassione, ma anche solo di umana comprensione. Cosa gli sarebbe costato avere pazienza con quel suo compagno che gli doveva una cifra comunque importante (cento denari erano cento giornate lavorative, tre mesi di stipendio, poco più di 4.000 € attuali), ma mai paragonabile agli 11 miliardi di euro che gli erano stati condonati pochi minuti prima?

Di là dalla quantità di denaro che c'era in ballo, è proprio una questione mentale, una scarsa predisposizione ad avere nei confronti degli altri gli stessi sentimenti o gli stessi atteggiamenti che desideriamo - a volte con pretese o con modalità ruffiane - vengano usati con noi da parte degli altri. Come quando chiediamo a Dio che la faccia pagare ai peccatori, ai cattivi, ai malvagi, e contemporaneamente gli chiediamo di essere misericordioso con noi; come quando lo preghiamo perché abbia pietà di noi, perché ci faccia una grazia, e contemporaneamente chiediamo che non abbia alcuno sconto di pena nei confronti di chi ci fa qualcosa di male. È come chiedere a Dio di essere paterno e materno, sì, ma non con tutti. Il perdono è prima di tutto un atteggiamento mentale, più che un gesto concreto di riconciliazione nei confronti di qualcuno che ci ha offeso: è capire che se perdoni generi vita, se ti vendichi generi morte. E soprattutto, non è più finita: la spirale di vendetta continua.

Certo, non è facile, soprattutto quando hai perdonato un mucchio di volte, come Pietro che pensa già di esagerare arrivando al limite di sette volte: ma proviamoci, almeno, a entrare in questa logica dell'usare con gli altri lo stesso metro che vogliamo venga usato con noi.

E speriamo almeno che Dio non ci prenda troppo sul serio, quando recitiamo il Padre Nostro: che davvero non rimetta a noi i nostri debiti così come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Saremmo fritti...

 

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