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TESTO Fattore “s”

don Alberto Brignoli  

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XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (10/09/2017)

Vangelo: Mt 18,15-20 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

Ricordo con simpatia un professore un po' burlone del liceo, che un giorno in classe volle farci divertire, e fece l'appello mettendo la consonante “s” dinanzi ai nostri cognomi, che ovviamente ne vennero storpiati e, in molti casi, produssero la negazione o il contrario del significato del cognome stesso. Attraverso quell'appello storpiato, comprendemmo il significato delle lettere “privative”, cioè di quei suffissi che messi davanti al nome o al verbo comportavano un'azione opposta, o anche solo differente: ad esempio, caricare-scaricare, tappare-stappare, legare-slegare, gonfiare-sgonfiare... parlare-sparlare... Quest'ultimo esempio è molto ben comprensibile rispetto a tutti gli altri perché al riguardo c'è davvero una grande esperienza e abilità, dappertutto, anche nelle comunità dei credenti in Cristo. Nelle quali, peraltro, quest'atteggiamento provocato dal fattore “s” non dovrebbe esistere, almeno stando al Vangelo che oggi abbiamo ascoltato. In una comunità di cristiani, che dovrebbe avere alla base di tutto la carità, non dovrebbe esistere questo stile di comportamento che “sparla” degli altri; dovremmo essere tutti fratelli in Cristo che è la verità, per cui dovremmo agire secondo verità, non dicendo cose che non sono vere, o dicendole alle spalle della persona interessata, o ancor peggio avendo il desiderio di fare del male a questa persona. “Dovrebbe”, “si dovrebbe”, “dovremmo”... il condizionale è d'obbligo, perché la realtà ci parla di ben altro: altro che fraternità e comunità! Le nostre comunità sono molto spesso covi e luoghi di maldicenza, di violenza verbale e fisica, di invidie e di gelosie, che inducono spesso le persone non solo a “parlare” di ciò che stanno vivendo, ma anche a “sparlare” di ciò che le circonda.

Cosa che con ogni probabilità si verificava già nella comunità dell'apostolo Matteo, agli inizi della storia della Chiesa: al punto che l'evangelista sente la necessità di inserire, tra i discorsi di Gesù incamminato verso Gerusalemme, questo inciso sulla necessità della cosiddetta “correzione fraterna”. Un termine, questo, che a me non è mai piaciuto più di tanto: ricordo come negli anni del Seminario a volte si facevano degli esercizi “forzati” di correzione fraterna, consistenti nell'essere abbinati a un compagno di studi al quale si facevano notare i suoi limiti, i suoi errori, le fatiche a entrare in relazione con lui, chiedendogli di fare altrettanto con noi. Non mi pare che i risultati fossero mai stati esaltanti... sarà perché era un esercizio indotto e non spontaneo, ma forse soprattutto perché più che di correzione fraterna è bene parlare di “dialogo fraterno” come luogo di soluzione dei conflitti. L'idea di “correzione fraterna” sa tanto di qualcuno che, collocato in una posizione di superiorità datagli dal ruolo o dall'età (un genitore, un superiore, un educatore, un responsabile), riprende e cerca di correggere gli atteggiamenti errati di una persona con cui è in relazione, e deve preoccuparsi di farlo comunque in un clima di fraternità, di serenità, con l'obiettivo chiaro di far sì che le cose vadano meglio.

Ma qui si parla di “fratelli che commettono una colpa contro di noi”, ovvero di persone con le quali siamo in relazione perché membri alla pari di un'unica famiglia, in questo caso di una comunità (e il termine che Matteo usa è il greco “ecclesia”): quello che Gesù chiede è che i problemi di relazione vengano risolti attraverso il dialogo, e non attraverso il giudizio o peggio ancora la condanna. Da come viene letta, la progressione che Gesù fa (prima “lo ammonirai tra te e lui solo”, poi “con due o tre testimoni”, poi “di fronte alla comunità” come ultima istanza) appare proprio come un giudizio, ossia un'azione compiuta da un giudice nei confronti di un imputato, prima esortato a cambiare in modo conciliante (come davanti a un giudice di pace) poi con una vera e propria udienza alla presenza di testimoni, e infine davanti alla corte che - di fronte alla mancanza di volontà del colpevole di cambiare atteggiamento - emette una sentenza definitiva.

Può anche essere così: ma nel momento in cui una relazione tra fratelli entra in crisi, non va dimenticato il punto di partenza. Bisogna ritornare alla legge promulgata da Gesù, ovvero allo spirito del Discorso della Montagna, quando Gesù, al capitolo 7 dello stesso Vangelo di Matteo, dice - lo sappiamo bene tutti - che è impossibile pretendere di togliere la pagliuzza che è nell'occhio del fratello, senza prima togliere la trave che è nel nostro occhio. Alla base di ogni soluzione dialogata dei conflitti sta quindi la consapevolezza dei propri limiti, prima che di quelli degli altri. E neppure dobbiamo dimenticare il punto di arrivo, indicato dalle parole stesse del Vangelo di oggi: “Se due di voi sulla terra si metteranno d'accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. La consapevolezza che una comunità di credenti si regge non sugli sforzi personali del singolo, ma sul nome di Gesù, permette a una comunità di superare tutti i conflitti.

E in questo cammino di riconciliazione, non abbiamo solamente un punto di partenza e un punto di arrivo, ma un mezzo, una strada da seguire, ed è quello che Paolo ci indica nella seconda lettura: “La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità”. Dove c'è un atteggiamento di carità, dove c'è un atteggiamento di amore sincero, qualsiasi dialogo e la risoluzione di qualsiasi conflitto non possono che fare del bene a tutti, perché quando si ama, è veramente impossibile fare del male a qualcuno.

Consapevolezza dei nostri limiti, certezza di avere Dio alla base delle relazioni tra di noi, fiducia nell'amore come bene supremo: con questo triplice farmaco è veramente difficile non riuscire a sanare le ferite che spesso si creano tra di noi. A una condizione, però: che togliamo di mezzo quella “s” che solo rovina le cose, e quando c'è qualcosa che non va, invece di “sparlare” degli altri, pensiamo solamente a “parlare” con gli altri. Ne andrà di beneficio a tutti quanti, davvero.

 

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