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TESTO Commento su Giovanni 10,11-18

don Michele Cerutti

IV domenica T. Pasqua (Anno A) (07/05/2017)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Gli Atti degli Apostoli ci presentano oggi la figura dei diaconi e come questi sono stati introdotti all'interno dell'organizzazione ecclesiale.

Il diaconato è un grado del sacramento dell'Ordine; gli altri due sono il presbiterato e l'episcopato. Può costituire una tappa intermedia verso il sacerdozio (diaconato transeunte, cioè di passaggio) o rimanere un ruolo di "servizio" nella vita liturgica e pastorale e nelle opere sociali e caritative (diaconato permanente). A scanso di equivoci circa i gradi dell'Ordine sacro, vale la pena ricordare quanto viene precisato nel Catechismo della Chiesa cattolica al n. 1554: "Il termine sacerdos - sacerdote - designa, nell'uso attuale, i vescovi e i presbiteri, ma non i diaconi. Tuttavia, la dottrina cattolica insegna che i gradi di partecipazione sacerdotale (episcopato e presbiterato) e il grado di servizio (diaconato) sono tutti e tre conferiti da un atto sacramentale chiamato ‘ordinazione', cioè dal sacramento dell'Ordine".

Per sant'Ignazio di Antiochia, ad esempio, una Chiesa particolare senza vescovo, presbitero e diacono sembra impensabile. Testimonianze sono pure presenti nei diversi Concili e nella prassi ecclesiastica. Dal V secolo, però, per diversi motivi, il diaconato conobbe un lento declino, finendo con il rimanere solo come tappa intermedia per i candidati all'ordinazione sacerdotale. Il Concilio di Trento (1545-1563) dispose che il diaconato permanente venisse ripristinato, ma tale prescrizione non trovò concreta attuazione.

Il ministero del diacono è sintetizzato dal Concilio Vaticano II con la triade "diaconía della liturgia, della predicazione e della carità", con cui serve "il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio".

Pertanto, il diacono, "secondo le disposizioni della competente autorità", può "amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l'Eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali (le benedizioni, ad esempio, ndr), presiedere al rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: ‘Essere misericordiosi, attivi, camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti'" (Lumen Gentium 29).

Il candidato al diaconato transeunte deve essere celibe e può essere ammesso all'ordinazione solo dopo aver compiuto i 23 anni di età. I diaconi permanenti, invece, possono essere ordinati sia tra i battezzati celibi, sia tra coloro che sono già sposati; se però sono celibi, dopo l'ordinazione non possono più sposarsi. Similmente non si può più risposare il diacono rimasto vedovo. Per diventare diacono l'età minima è di 25 anni per i celibi e di 35 per le persone sposate, previo consenso della moglie, in ottemperanza alle disposizioni determinate dalle Conferenze episcopali.

Da questa vocazione sono scaturiti grandi santi vere e proprie colonne della Chiesa

Stefano, come si legge al capitolo 7 degli Atti degli apostoli, "pieno di grazia e di fortezza", prese a pretesto la sua autodifesa per illuminare le menti dei suoi avversari. Dapprima compendiò la storia ebraica da Abramo a Salomone, quindi affermò di non aver bestemmiato né contro Dio, né contro Mosè, la Legge o il Tempio. Dimostrò infatti che Dio si rivelava anche fuori del Tempio e si accingeva ad esporre la dottrina universale di Gesù come ultima manifestazione di Dio, ma i suoi avversari non gli consentirono di proseguire il discorso, poiché, "menando alte grida, si turarono le orecchie... poi lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono".

Piegando le ginocchia sotto la martellante pioggia di pietre, il primo martire cristiano ripetè le stesse parole di perdono pronunciate da Cristo sulla croce: "Signore, non imputare loro questo peccato.

La festa del primo martire fu celebrata sempre immediatamente dopo la festività natalizia, cioè tra i "comites Christi", i più vicini alla manifestazione del Figlio di Dio, perché per primi ne resero testimonianza.

Questa attenzione alla carità ci dice il brano di oggi ha spinto alla conversione di molti al cristianesimo.

È, soprattutto, lo splendore della carità, che trasforma il cristiano in testimone, dato che "l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono testimoni" (EN 42). Compito del testimone è quello di "essere rebus, essere mistero": suscitare, cioè, forti interrogativi (dando, però, anche indizi di risposta).

Dall'amore che gli viene donato con gratuita solidarietà, attraverso la "trasparenza" del donatore, l'uomo moderno può giungere alla scoperta della tenerezza di Dio.
Con la carità si misura la profondità dell'amore di Cristo.

La carità diventa annuncio e attraverso questa che convertiamo.

Oggi c'è bisogno di riscoprire la dimensione piena di questa virtù che è il frutto delle due altre la fede e la speranza.
Gesù nel Vangelo si presenta come il buon pastore.

Il vero pastore non è più tale soltanto perché le pecore di sua proprietà (tà ìdia) ne riconoscono la voce, ma perché si è sviluppata una reciproca conoscenza basata sulla fiducia più totale, garantita dalla disponibilità del pastore a sacrificare la propria stessa vita pur di tutelare quella delle pecore. Tale disponibilità a privarsi di ciò che è più prezioso per un uomo, vale a dire la vita, sottolinea la radicale differenza tra bontà e malvagità, tra verità e menzogna ed un pastore disposto a tanto non può che essere "buono" (in greco suona letteralmente come "bello", cioè kalòs) e "vero".

Io sono il buon pastore. All'inizio della parabola, Gesù si era presentato come il legittimo proprietario delle pecore, ma ora si definisce "buon" pastore volendo accentuare in particolare il carattere sacrificale della propria relazione con le pecore.

La figura negativa del mercenario ha lo scopo precipuo di porre in rilievo il comportamento del "buon" pastore, che si preoccupa delle sue pecore, non le abbandona, non fugge ma, anzi, dà la sua vita per esse. Sullo sfondo oscuro e minaccioso del mercenario, che non ha alcun legame con le pecore né sul piano affettivo né su quello puramente economico, visto e considerato che non gli appartengono, si staglia luminosa la figura del buon pastore, che con le sue pecore ha sviluppato, invece, un reciproco rapporto di amore e di conoscenza, di fiducia e di rispetto.

Gesù conosce i suoi singolarmente nel profondo del loro essere così come il pastore conosce le sue pecore e le chiama per nome; si tratta di un rapporto di confidenza amichevole o, meglio ancora, di tipo familiare.

Attenzione l'amore di Dio non raggiunge pregiudizievolmente alcuni uomini a scapito di altri, ma abbraccia l'intera umanità. La scelta di alcuni uomini come membri del gregge di Cristo rientra nell'ambito della provvidenza divina, misteriosa ed imperscrutabile ma sempre provvidente.

Il modello della "conoscenza" e dell'amore reciproco tra Gesù e coloro che credono in Lui è la "conoscenza amorosa" tra il Padre ed il Figlio ed a questo modello devono ispirarsi tutti i seguaci di Cristo, invitati ad essere perfetti come è perfetto il Padre celeste (Mt 5,48), termine ultimo ed unico di ogni perfezione. Il dono supremo di se stesso è il sigillo, che garantisce la "bontà" del pastore e del suo rapporto d'intima e reciproca "conoscenza" con il proprio gregge.

 

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